Una storia di ordinaria follia…
Un abile sarto, Geralt, costruisce vestiti d’ogni tipo da decine d’anni. Belli ed eleganti, paga fior di quattrini agli “strilloni” del paese per farli reclamizzare. Geralt, sicuro del proprio lavoro, decide quindi di inviare anche i suoi ultimissimi prodotti a codesti “strilloni”, che scrivono sul giornale del paese. Con questi “strilloni” ha un buon rapporto, perché Geralt è un sarto famoso e, spesso, compra pagine del giornale per sponsorizzare i suoi prodotti. Perciò, si mette all’opera: li cuce a regola d’arte e ci impiega tantissimo tempo. Da Geralt, però, vanno tre clienti: uno con una corporatura molto piccina, uno di stazza intermedia (seppur più del doppio del piccino), un altro invece è di corporatura robusta, ma solo un po’ più grande dell’intermedio. I tre clienti sono gli unici del paese. Geralt, sarto di un certo pregio, sa bene come cucire un abito. E sa, ovviamente, che dovrà prendere le misure ai tre clienti per poterlo fare a regola d’arte. E lo fa. Ma, invece di cucirlo su misura per tutti e tre, decide di fare un solo vestito, per il cliente intermedio, programmando di adattarlo poi per gli altri due. Geralt, che è un bravo sarto, sa bene che all’uomo piccino andrà molto largo e che all’uomo robusto andrà strettino. Il vestito è comunque complicato da intessere, perciò Geralt è costretto più volte, scusandosi coi clienti, a rimandare il giorno della consegna. Ma i clienti iniziano ad arrabbiarsi e vanno più volte da Geralt in bottega, a lamentarsi del ritardo. Però, Natale è alle porte e Geralt sa bene che questo è il momento in cui, per prassi, tutti i clienti spenderanno soldi. E se decidessero di spenderli altrove? Perciò, il sarto Geralt, decide di venderlo a tutti i clienti e invia agli strilloni il vestito e questi, vedendone la qualità, ne restano estasiati, pur vedendo che l’abito ricevuto è di un’unica taglia e pur sapendo che i clienti sono tre.
Alcuni degli strilloni, con una voce meno “potente”, si interrogano sulla taglia e su come possa calzare agli altri due clienti. Ma gli strilloni più importanti, forse memori del buon rapporto con il sarto Geralt, ne intessono le lodi “dimenticandosi” degli altri due clienti. Ma arriva il giorno della consegna! Il cliente intermedio, ne resta soddisfatto. Il cliente robusto, si adegua anche se gli va un po’ stretto: ma Geralt gli ha promesso modifiche, comunque secondarie, tra pochi mesi. E il cliente molto piccino? Lui non è contento: l’abito è largo e lui ci si perde dentro. Alle lamentele del cliente piccino (ma anche quello robusto non è particolarmente soddisfatto), il sarto Geralt chiede scusa e si pente del “misfatto”, sottolineando che avrebbe dovuto informare il cliente piccino della taglia “reale” del vestito ma che, nel giro di pochi mesi, glie lo avrebbe sistemato per bene. Il cliente piccino è indeciso: Geralt gli ha offerto un rimborso, ma sa che l’abito è davvero bello e che forse, in poco tempo, gli potrebbe calzare a pennello. Il cliente piccino, comunque, si “arrabbia” anche con gli “strilloni”: «Non avete pensato a noi clienti piccini?». Gli “strilloni”, dismessi gli urli e improvvisamente desti dal torpore, si rendono conto di “non aver pensato a tutti i clienti” e puntano il dito contro Geralt: «Perché non ci hai mandato tutti i vestiti?» e iniziano a pubblicare tanti articoli dei difetti e dei problemi riscontrati dai clienti, aumentando a dismisura il “caos”. Ma gli stessi, vedendo che l’acrimonia nei confronti del sarto stava anche colpendo loro, veduta anche la rabbia dei clienti “traditi” i quali recriminavano agli stessi “strilloni” una condotta non proprio esemplare, decidono improvvisamente di giungere a più miti consigli, suggerendo ai clienti imbufaliti di “attendere”.
La torta della “vergogna”
Prima di andare oltre, vi invito nuovamente a rileggere il “racconto”. Più volte. Per afferrare appieno tutti gli angoli, tutti i dissidi, tutti i paradossi e tutti i “dietrofront” di coerenza fatti dai “protagonisti” della vicenda. Tutte questioni che, in fin dei conti, ormai sono addivenute una triste e regolare quotidianità. Tutti e tre, i protagonisti, mossi esclusivamente da una insaziabile fame di possesso: di cose, di soldi. Una fame eterna e inestinguibile, assieme ad un timore assoluto di perderle, che, in un eterno ritorno figlio più di un antropologicamente inespugnabile “ciclo della vita” artificiale, reinterpretato in chiava capitalistica, che di una concreta necessità, ha ridotto l’industria videoludica ad una sorta di continua costruzione di una piramide. Una costruzione enorme, impossibile da terminare ma che il faraone (i consigli d’amministrazione) vogliono ora e subito, per accontentare e ingraziarsi i propri dei (i portafogli dei videogiocatori): perciò i soldati, quelli col frustino, (in questo frangente, i dirigenti d’azienda) son “costretti” loro malgrado ad “incentivare”, con una sana dose di “simpatiche” sferzate (il crunch) gli schiavi del settore: i programmatori. E tutti (e dico proprio tutti) avrebbero potuto condurre la questione in modi tutto sommato più logici e umani. Invece, anche questa volta, quello che ci hanno parato innanzi è l’ennesima torta della “vergogna”, con i soliti gusti a cui solitamente siamo abituati: mezze verità, “sonno della ragione”, hype a dismisura regolarmente tradito, ire funeste, notizie vere ma non troppo o false ma non troppo, titoli accattivanti e smentiti un rigo più in basso. Una torta, appunto, della “vergogna” a cui noi accediamo pagando profumatamente e della quale, ormai, saggiamo pienamente il gusto non esattamente piacevole, da tempo.
La fetta di CD Projekt
Dicevamo, una torta della “vergogna”. La cui prima fetta, non per peso ma per definizione, spetta a CD Projekt Red, le cui scuse a posteriori della comunicazione di aver raggiunto o quasi i costi di produzione, non hanno proprio un buon “sapore”. Anche perché, Cyberpunk 2077 non è stato calato dall’alto, da una sorta di entità superiore indefinita che ne ha imposto le fattezze. Il gioco, il loro, era in sviluppo da anni: così come da anni erano disponibili le console sui cui il gioco è stato, sicuramente, testato. E, sono certo, il titolo nel prossimo paio di mesi sarà sicuramente ampiamente giocabile anche sulle vecchie console “base”. Ma, la prima versione, leggendo i commenti di chi lo ha testato al day one sulla vecchia e basica generazione, era semplicemente in uno stato di “decomposizione” più che composizione: ingiocabile, stra-colmo di bug e imperfezioni tali da rendere molto difficile persino il “resistere” all’interno d’esso. Non si poteva rimandarlo un’altra volta? Probabilmente no: gli azionisti avrebbero tuonato, i videogiocatori anche. E il portafoglio (che, comunque, sta subendo un netto contraccolpo), e con esso le “scadenze” fiscali e non (a Natale, la consuetudine è spendere), avrebbe languito e pianto. Quindi, si è deciso di immetterlo sul mercato, per poi dopo pochissimi giorni, scusarsi di «non aver mostrato il gioco su console base prima della sua uscita», come si legge nel comunicato rilasciato da CD Projekt Red. La vera domanda è: perché non è stato mostrato? Col senno di poi, tutti gli indizi condurrebbero in un’unica, triste direzione (che, tra l’altro, era anche quella più logica), data la mole di criticità come tantissimi player hanno denunciato (e anche alcuni, piccoli siti underground). Ipotesi, verosimili, ma sempre ipotesi. C’è anche un’altra opportunità: CD Projekt Red si è “dimenticata” delle versioni old-gen base? Un errore umano? Quant’è plausibile che un’azienda così grande, possa dimenticarsi dell’utenza PS4 e Xbox One base che, con ottima probabilità, è la fetta di player più grande del mercato? Domande e ipotesi, tra quelle più concrete e altre meno verosimili. La scelta di offrire risarcimenti, sottolineiamo, è sicuramente apprezzabile e dimostra comunque che, per certi versi, il mea culpa (assieme alle vociferate perdite economiche) è stato “accusato”: ma è comee lanciare un sasso in un lago strapieno di barche sperando di non prenderne una: farlo è visibilmente un azzardo. E se la barca, infine, vien colpita, magari ferendo una persona al suo interno, le scuse sono davvero… “scusabili”? Comunque, dopo i primi giorni d’incertezza e totale buio sulla questione rimborsi, negli ultimi giorni la cupa coltre di nebbia sembra sia prossima a diradarsi completamente. In un “epidemico” mea culpa “tacito”, anche i grandi colossi videoludici sembrano aver recepito la rabbia dell’utenza. Sony e Microsoft hanno nelle scorse ore offerto rimborsi e addirittura eliminato dallo store il gioco, nel caso del colosso nipponico. La stessa CD Projekt Red, sembra sia intervenuta a “gamba tesa” sulla faccenda, creando un’apposita mail dedicata al refund (tramite prova d’acquisto) che parrebbe esser valida anche per coloro che hanno acquistato una copia fisica del gioco (seppur c’è un “limite temporale” per presentare la richiesta, il 21 dicembre: il giorno d’uscita di una patch risolutiva?). Un “pentimento” estremo e così profondo, che la stessa casa di sviluppo sarebbe pronta a metter i soldi di tasca propria. Una situazione estrema, figlia di una estrema disattenzione e che ha richiesto misure estreme e che, sembra già evidente, che avrà ripercussioni estreme sulla nomea da “bravi ragazzi” dell’azienda polacca.
La fetta dei videogiocatori
Ma la fretta era il Natale: l’avere la cosa, spendendo i soldi, per auto-compiacersi in un giorno che dovrebbe esser di gran lunga spirito, ma che non si sa chi ha deciso fosse dedicato completamente all’acquisto e allo scambio di regali. Perché in questo casotto da “comune” ospedale psichiatrico, il 33% della torta della “vergogna” è da attribuire ai player. Insaziabili, insoddisfatti, qualsiasi cosa si faccia. Il prodotto arriva prima sul mercato? “Che schifo, è pieno di bug”. Il prodotto viene rimandato più volte? “Che schifo, non uscirà mai”. E poi ci sono i player indifferenti: coloro che acquistano a priori, sempre e comunque e se anche qualcosa non funziona bene, se ne disinteressano. Comprano aprioristicamente, senza “né leggere, né scrivere”. Aprono volentieri il portafoglio, quasi riflesso meccanizzato, per la versione “nuova” del gioco, anche se si differenzia millimetricamente dal capitolo precedente, andando così ad imprimere una concreta (retro)marcia all’industria e alla scena. Perché, come sopra, “è normale che al day one le cose non funzionino bene” e quindi giù di centinaia d’euro di prodotti che, solitamente, sono ben lungi dall’essere giocabili senza intoppi nel giorno dell’uscita. Ed è per questo ondivago modo di vedere e comprendere, senza cercare un mezzo fra le due posizioni, una sorta di “umana e interessata” vigilanza, che l’intero mercato è in preda ad una sorta di frenesia. Una vigilanza che non dovrebbe cedere all’hype montato dai soliti “circensi” e, in un ormai pavloviano circolo, reagire al “sogno frantumatosi” con ira funesta, minacce, class action e quant’altro. Una vigilanza che se razionalmente applicata, potrebbe davvero inaugurare una nuova era dei videogames. Magari, facendo definitivamente (e finalmente) tramontare la costante necessità di far uscire un capitolo “nuovo” all’anno di una qualsivoglia saga, spesso speculare millimetricamente al chapter precedente. Significherebbe rendere il tutto più “umano” e, magari, apportare dei cambiamenti tali da introdurre nuovi modelli di bussiness, che non danneggino nè l’utenza (“costretta”, con vari mezzi “sottaciuti”, ad acquistare ogni 12 mesi un gioco sostanzialmente a prezzo pieno), né tanto meno le aziende (che, applicando un modello di “soft breaking” del prodotto, magari con un season pass annuale ad un prezzo inferiore di un’uscita canonica, andrebbero a risparmiare sui costi di produzione). Ma le colpe dei player non finiscono qui: sono anche quelli che cliccano furiosamente l’ennesima stupida notiziola vomitata dai vari “siti d’informazione”, ormai delle pubblicità ambulanti affamate di click, che alimentano in modo disdicevole le console war e che “spruzzano” la loro bile, fatta spesso di insulti ed ignoranza, sui post “clickbait” di taluni. Riassumendo: sono anche coloro che seminano odio, qualsiasi sia la portata della questione che si para innanzi. Una reazione meccanica che pare, spesso, uno sfogo su cui ributtare frustrazioni e ansie che, probabilmente, si vivono quotidianamente. Quindi, i player in larghissima misura, non sono vittime: ma sono quei classici “capi” da film, che sbraitano in continuazione, qualsiasi sia il contesto, qualsiasi sia il risultato finale. Quelli che tengono le corde “tese”, a priori, senza modificare di un centimetro ma, anzi, spesso “godendo” di eventuali flame che, in realtà, danneggiano gli sforzi immani di molti.
La fetta della critica
L’essere l’ultima sezione di questo articolo, non indica una colpa minore, anzi: gli “strilloni” hanno probabilmente la colpa maggiore in tutta la questione. Sono coloro che hanno montato un hype al limite dell’irrealizzabile per un gioco che, nonostante di grande qualità, non è la rivoluzione che loro hanno forzatamente buttato in gola all’utenza, solo per strappare qualche click in più. Sono gli stessi che “ammazzano” Godfall perché non particolarmente originale, per poi premiare l’ennesimo Call of Duty copia e incolla o quasi, con voti che rasentano il 9. Ma sono anche coloro che, addormentati in una sorta di “sonno della ragione” alimentato da una continua masturbazione di click e sponsorizzazioni (perché fanno il mestiere più bello del mondo, inutile negarlo, e non vogliono che l’andazzo cambi), non si sono “accorti” o non hanno valutato attentamente che, in effetti, prima di etichettare qualcosa con un giudizio, quel giudizio andava basato analizzando prima tutte le possibilità. Ma, d’altronde, se uno dorme… dorme. E, nel casino ingeneratosi, sono ancora loro a “goderne”: news, newsette, notiziole, commentucci, tutti sapientemente circondati di decine di pubblicità e che generano una mole di visualizzazioni allucinante. Perché, quando si è in “guerra”, vince unicamente chi mette in campo le “armi”. Solo che, in questo frangente, i nostri “strilloni” preferiti si sono superati. Hanno, col solito giochetto dei titoli altisonanti, spesso contraddetti dopo tre parole tre nel corpo del testo della notizia, montato ad arte una frenetica attesa per il titolo (un po’ come successe per Death Stranding). Tra editor del pene, volti dei “meme” ricreati e idiozie varie connesse, i click sono aumentati a dismisura così come la “fame” del pubblico. Poi, giunte in redazione le collector edition del gioco (naturalmente, starnazzando la cosa sui social, quasi fosse un merito) ne hanno intessuto lodi eterne, a conti fatti non facendo granché bene il proprio lavoro: al day one, Cyberpunk 2077 come detto era al limite dell’ingiocabilità sulle vecchie console, eppur i voti della “stampa specializzata”, sono schizzati alle stelle. Poi, nel momento in cui il pubblico ha iniziato a protestare per la situazione, gli strilloni ci hanno marciato sopra, pubblicando news e newsette su proteste, video di bug et similia, ingenerando un’altra vagonata di click. Ma, nel momento in cui il vento è cambiato nuovamente, ovvero quando il pubblico ha iniziato a puntare il dito anche contro i “critici” che, incredibilmente, non avevano considerato nella valutazione complessiva del titolo, anche le vecchie generazioni, gli “strilloni” hanno cambiato subito muta: in un primo momento, sono usciti dei timidi editoriali, confusi e non ben comprensibili, che facendo dei “velati” mea culpa, in realtà “bacchettavano” Cd Projekt. Ma, non ottenendo il risultato sperato (ovvero spostare l’attenzione generale sul “cattivo” produttore di giochi), ecco la magia, muta cambiata nuovamente. Questa volta, l’invito di una buona fetta dei critici nostrani, è stato quello della “calma” e dell’attendere le patch che (siamo sicuri, non si discute) arriveranno in breve tempo. Cosa insegna questa situazione? Che in Italia, in larghissima misura, non esiste una critica specializzata, né il giornalismo videoludico, ma solo un’infinita sequela di rotocalchi che, tra post sui social a limite dell’asilo nido, comunicati dal sapore pubblicitario e pagine dei siti dove la notizia deve cedere spesso il passo all’ennesima pubblicità (spesso, di un gioco anche recensito e criticato, salutando con un grosso “ciaone” l’imparzialità teorica del mestiere del critico), fanno gossip più che informare sul nostro (molto costoso) hobby.
Pensavo fosse amore…invece era un bug!
Ma le scelte condotte dagli “zii” e dalle “zie” di Geralt, nascondono il violento circolo vizioso, alla base del “ciclo vita” di cui sopra. Un circolo che esiste da anni (come dimenticare i regolari “downgrade” che i giochi subiscono dopo i grandi expo videoludici internazionali o le flame war per stati di programmazione non particolarmente esaltanti): l’ordinaria follia, non l’ha di certo creata CD Projekt Red. Perchè, effettivamente, c’erano altre possibilità. Si poteva “rimandare” la versione old gen, oppure consigliarne l’acquisto solo ai possessori delle versioni “hardcore” delle vecchie generazioni. Oppure, si poteva far uscire una “doppia versione”: una puramente old-gen, dal costo sensibilmente inferiore, ed un’altra next-gen, con un codice per accedere ai contenuti (grafica e asset estetici) futuri. Oppure, data l’attuale situazione, semplicemente considerarlo come un gioco per sole future generazioni: prima o poi, la console bisogna cambiarla. Però, si è voluto “tentare” tutto e subito. Si è cercato di non perdere nessuna possibilità, contando sul fatto che, ormai, le nuove schiere videoludiche sono abituate all’incertezza e all’incompletezza del day one. Ormai, da anni rassegnati ad un’eterna condizione di “beta tester a pagamento”, non ci spaventa più l’idea di spendere vagonate di soldi per console e videogiochi che, sappiamo benissimo, “non possono funzionare bene dal primo giorno”. Ormai, una costante assoluta. Ma conviene chiederselo? Andreste da un falegname sapendo che, v’è l’altissima possibilità che il prodotto possa non esser buono quando andate a ritirarlo, nonostante le indicazioni e le misure date? E andreste a far la spesa in un supermercato dove i prodotti, con ottima probabilità, non hanno un buon sapore e non sono proprio “pregevoli” ai 5 sensi? Un parallelo relativo, sicuramente, ma che rende l’idea appieno. Domande, ipotesi, incertezze e “guerre intestine”: questi sono i venti che caratterizzano il nostro ambito preferito. E, in conclusione, ad onor di cronaca, và specificata una cosa che appare, ai nostri occhi palese: in questa “triste storia”, tutti i “protagonisti” sono sia vittime, che carnefici. Di un gioco terribile, nato nel momento in cui i videogames sono addivenuti solo un metodo per guadagnare (e condizionare) o uno strumento da consumare, sull’onda delle mirabolanti “patologie” mentali connesse agli usi e costumi dei social. Un gioco, dicevamo terribile, dove ci si sente “eroi” e “prime donne”. Un gioco alimentato da noi ma che, in realtà, si nutre di noi. Anzi, forse una vittima ci sarebbe: il programmatore. Lui, semplicemente, è sempre la “portata principale”.