Ho ritenuto giusto scomodare l’immortale ragioniere, in una delle scene più epocali della storia cinematografica globale, perché la sua storica frase è l’unica, realmente, in grado di riassumere con potenza l’attuale situazione in relazione al presunto boicottaggio (ma fortunatamente fallimentare, visti i dati di vendita trionfali su Steam) rivolto ad Hogwarts Legacy. E prima di passare alla dissertazione vera e propria della situazione, tra pseudo-scandali morali e critici ventenni della domenica, mi urge fare una doverosa premessa a scanso di equivoci: chi vi parla è ben lungi dall’essere un fan di Harry Potter. Ho visto tutti i film per la prima volta solo il mese scorso. Tenendomi a fatica sveglio durante i primi tre o quattro e sbadigliando sonoramente negli altri. Ma comprendo che la saga, sia rivolta ad un pubblico di età molto più bassa. Una premessa per sottolineare un concetto cruciale: sono lontanissimo dall’essere un fan di Harry Potter e per me, la questione relativa all’imminente Hogwarts Legacy, come già sottolineato, è l’ennesima “cagata pazzesca” partorita dalla mente (che somiglia ogni giorno di più ad una enorme fucina di cazzat*, così non si offende nessuno) di una delle generazioni più alienanti e divisive della storia umana recente. Una generazione che professa l’estrema libertà assoluta, quanto meno finché non mostri alcuni dubbi sul loro rigidissimo modo di vedere le cose, scaturito da una non meglio precisata coscienza civile dettata dalle “leggi non scritte” di creature partorite dalle multinazionali arraffone del social platforming.
L’editoria videoludica mainstream che “c’ha famiglia”
Si sa, l’editoria videoludica (se mai è esistita) è in crisi da tempo immemore: oggi bastano pochi minuti per tirar su un sito e, qualsiasi ragazzino, può auto-eleggersi critico videoludico (qualsiasi cosa significhi) in barba a giornalisti seri e con un’ampia esperienza alle spalle. Dunque, parlare di videogame non fa sicuramente ingrassare, quindi si deve tirare a campare: la prima forma di reddito è sicuramente il “bandwagon clickbaiting”, ovvero il parlare (spesso, ad cazzum o con titoli fuorvianti e notizia assenti) di argomenti seri o pseudo seri in concomitanza di grandi uscite o eventi, per ottenere click e soldi dalle pubblicità. Ed è il caso di Hogwarts Legacy: il ritorno dopo decadi di un videoludo dedicato ad Harry Potter, funestato dalle presunte accuse di transfobia direzionate alla sua autrice, Rowling. E, proprio negli ultimi giorni, una buona fetta della illuminata (da led rgb, ma solo con la cam accesa) critica videoludica, affidata per lo più a ragazzini “incazzati” della domenica, ne ha approfittato per partorire articoli “discutibili” e tendenzialmente inconcludenti, partendo da premesse “viziate”: «La Rowling ha torto marcio, ecco gli argomenti che lo dimostrano».
Purtroppo per gli autori e le autrici però, chilometri e chilometri di parole, con tanto di campali “spiegato bene” nei titoli (chi l’ha detto che è spiegato bene? C’era una giuria di intellettuali con le palette in mano?) non hanno dimostrato nulla se non un tentativo piuttosto superficiale e volutamente limitato alle angolazioni giuste per tirar acqua al proprio mulino (quello dell’odierna damnatio memoriae del passato, tanto cara alle novelle generazioni illuminate dagli algoritmi dei social). A mio modesto avviso, le inesattezze riscontrate, annesse ad una visione estremamente ristretta della questione, sono piuttosto evidenti e non forniscono quella che è l’essenza della discussione, che tocca temi fondanti e al centro di lotte più o meno violente da decenni, funestate da una verità spesso “fosca” e dai margini non sempre evidenti. Tanti di questi articoli, sprecatisi negli ultimi mesi, hanno toccato in modo speculare (tra l’altro, la radice è piuttosto evidentemente un articolo del Post di qualche anno fa) un argomento complicato, offrendo una visione, a mio avviso, piuttosto limitata e figlia della (finta) positività dell’odierna cultura del “liberi tutti ad ogni costo” (ma se non sei d’accordo, allora taci e mettiti in un angolo). Una situazione pessima, resa ancor peggio perché al centro della discussione non c’è solo un giochino, ma decadi e decadi di soprusi e violenze subite da una categoria, oggi ridotte ad hashtag e “carbone per la popolarita”. Tenterò, con le mie limitate capacità, di rispondere ai punti (a mio avviso) salienti della questione.
Vietato dire “donna”
Il pomo della discordia è stata l’ormai ultra-nota dichiarazione della Rowling, in relazione al concetto di “persona con le mestruazioni”. In sostanza, per i meno anglofoni, la Rowling commentò un articolo che intimava alla creazione di un mondo migliore post Covid per le “persone che mestruano”. Al che, la stessa autrice di Harry Potter, presa dal fuoco sacro della satira (e sarebbe evidente anche ad una sedia colpita da ictus) commentò di ricordare ci fosse una parola adatta per la citata “definizione”. Una boutade e nulla più, vista però dagli araldi poco più che maggiorenni dell’odierno fascismo culturale, come una terribile ignominia. Gli stessi araldi che tra foto semi ignude sui social e lotte ecologiche a colpi di post social con l’ultimo “aifòn” (che inquinano quanto i tubi di scappamento delle auto, più o meno), hanno pensato bene di trasformarla in una sorta di guerra santa (ma d’altronde, se non si ha nulla da fare, qualche “ammazzatempo” bisognerà anche trovarlo). E giù di transfobia, minacce di morte (quelle si sono una vera e propria forma di rispetto) e altre accuse insignificanti e cerebralmente limitate, sotto tutti i punti di vista.
‘People who menstruate.’ I’m sure there used to be a word for those people. Someone help me out. Wumben? Wimpund? Woomud?
Opinion: Creating a more equal post-COVID-19 world for people who menstruate https://t.co/cVpZxG7gaA
— J.K. Rowling (@jk_rowling) June 6, 2020
https://platform.twitter.com/widgets.js
Partiamo da un principio sacrosanto: da che mondo è mondo, l’essere umano ha avuto l’inestinguibile necessità di comunicare con i suoi simili. Utilizzando varie forme di dialogo, sino ad arrivare ai linguaggi compiuti moderni, gli strumenti comunicativi dell’uomo si sono sempre contraddistinti dalla necessità di creare parole atte a definire e distinguere quanto più profondamente possibile tutto il creato. Un’altrettanta necessità, derivata dalla continua evoluzione tecnico-scientifica, che ha portato con sé l’urgenza di coniare nuovi termini e nuovi “argomenti” per meglio definire. Una urgenza che, le odierne generazioni, hanno ben traslato in faccenduole di relativo conto: la moderna religione di ultra celebrare l’individuo, creando la malsana idea che si sia tutti speciali e necessari alla comunità (tra l’altro, senza fare un c*zzo), ha partorito “definizioni monstre” per ogni minimo battito di ciglia. Ogni scelta personale, dalle più grandi alle più piccole ed insignificanti, specialmente in campo sessuale, hanno automaticamente portato alla (inutile e deleteria nella maggioranza dei casi) definizione di categorie rigide, per le quali vige l’assoluta necessità (pena, valanghe di merda) di rispetto.
Ad esempio: ti piace saltare da un letto all’altro senza ritegno? Non sei semplicemente immaturo ed incapace di una relazione stabile, ma “poliamoroso”. Oppure, sei una donna eterosessuale a cui piacciono gli uomini? Bene, benvenuta nelle categorie dei cisgender. Non hai nulla di speciale e non sai come promuovere la tua immagine sui social? Boom!, basta dire d’esser “genderfluid”, ovvero di non sentirsi né donna né uomo (ma basta fare una normale visita medica per risolvere l’inghippo). Definizioni inutili e divisive all’ennessima potenza, figlie di una generazione che, per ragioni anagrafiche e contestuali, non ha nessuna coccarda al proprio petto da mostrare orgogliosa: una mancanza che ha creato una vera e propria malattia, un vacuum intellettuale da riempire con una religiosa necessità di creare muri e divisioni, definizioni assolutistiche e rigidi codici comportamentali a cui obbedire. Un po’ per ignoranza, un po’ perché i paletti, in fondo, ci fanno sentire più sicuri. Però, questa necessità di approfondire, dettagliare e dividere “escatologicamente”, improvvisamente, non diviene più tale quando una “persona che mestrua” debba essere definita donna.
Tra significanza e significato
Ricordiamo, ai tanti e alle tante intellettuali della domenica, che tra una foto sorridente (pre-impostata) sui social e un articolo “spiegato bene” (ma scritto male), che donna deriva dal latino “domina”, che significa padrona. L’essenza del termine, nell’antichità, era da attribuire ad un ruolo di potere che le donne avevano nelle primissime società matriarcali. E indovinate da dove derivava il loro potere? Dalla capacità, straordinaria e “divina”, di procreare. Persona, invece, da dove deriva? L’idea più condivisa è che il termine derivi dal verbo latino “personare” (risuonare) e che facesse riferimento agli attori del teatro classico antico che parlavano attraverso delle maschere di legno. Ora, per i malati di definizione post-adolescenti, dove ogni piccolo neo deve essere rigidamente etichettato e definito, qual è la definizione più corretta e profonda di una “femmina umana”? Nonostante l’uomo si sia concettualmente allontanato (fortunatamente) dalla semplice divisione naturale maschio-femmina (della serie, l’uomo non è solo sperma, la donna non è solo utero), quella stessa resta in modo insindacabile, oggettivo e concreto, la solida base anche della nostra società. Una base che ci ha consentito di compiere innumerevoli passi in avanti, sociali, culturali, politici ecc. in grado di modellare il nostro modo di vivere in un contesto più avanzato e razionale rispetto alla mera “legge della giungla”. E perché, dunque, in questa folle corsa alla definizione assoluta, “persona che mestrua” lo si preferisce a “donna”? Donna è una parola offensiva? Donna è uno “strumento di scena” da utilizzare a proprio piacimento? Donna è un concetto arcaico e superato?
In questo senso, la Rowling stessa in un lungo articolo successivo alla shitstorm (di cui torneremo a parlare anche dopo), aveva appunto razionalmente fatto riferimento ad una certa erosione del significato della parola “donna” e degli annessi diritti. Perché, con buona pace dei militari del rispetto assoluto tranne per chi non la pensa come loro, esistono donne che si sentono, semplicemente… donne. Dunque, attratte dagli uomini e che vogliono metter su famiglia, partorendo pargoli. E non v’è nulla di male, né c’è da vergognarsi: anzi, in primis, dovrebbero ringraziare i propri genitori che, spinti dal feroce arcaismo da “boomer” a loro tanto inviso, hanno deciso di metter su famiglia “all’antica”. Sull’erosione del concetto e dei diritti delle donne “biologiche”, posso trovare dei punti condivisibili: il cambio di sesso è, nei fatti, puramente estetico, l’esser donna non è solo una questione di tette e “assenza di pene”. L’asserzione sostenuta dalla Rowling che «ad un uomo basterà dire d’esser donna per divenirlo» è, a conti fatti, una verità storica, con una omissione: basterà dirlo e sottoporsi ad una cura/percorso chirurgico che resta, comunque sia, principalmente estetico e non totalmente funzionale (ancora una volta, purtroppo per coloro che sentono di non appartenere al proprio sesso “naturale”). La domanda è: un processo di modifica chirurgico-ormonale del proprio corpo è essere, concettualmente, donna? Donna è bisturi e farmaci? Condivisibile? Non condivisibile? Lascio la questione politica, sociale e civile ai diretti interessati. Quello che mi interessa è sollevare il dubbio ed abbattere una presunta verità assodata. V’è, inoltre, una culturale cancellazione programmatica del concetto di maschio e femmina (che, lo ripeto, esistono incontrovertibilmente a livello biologico): la fluidità a tutti i costi sta lentamente sovrascrivendo l’identità sessuale binaria (che, con buona pace degli adepti del politicamente corretto, esiste). Oggi, la binarietà sessuale, è quasi un arcaico insulto. Andrebbe ricordato agli stessi militi social che la binarietà, fortunatamente, è ancora alla base della nostra comunità: senza d’essa, nemmeno i succitati “soldati da tastiera” esisterebbero (e i dati di chi venderebbero le grandi multinazionali social?).
Una mera questione di utero
Ma torniamo, più concretamente, alla questione “mestruale”. Ora, sveliamo l’arcano: non tutti i transgender hanno le mestruazioni, perché per averle devi esser biologicamente donna. Il ciclo mestruale è «la regolare perdita di sangue e tessuto mucoso proveniente dalla cavità uterina, attraverso la vagina, in seguito allo sfaldamento dello strato superficiale dell’endometrio. Si verifica ciclicamente nelle donne fertili, è resa possibile da un’avvenuta ovulazione ed è innescata dalla caduta dei livelli di progesterone. È un segno che l’ovulo rilasciato durante l’ovulazione non è stato fecondato e che dunque la gravidanza non si è verificata». La definizione, presa da Wikipedia, presuppone un dato oggettivo: per avere le mestruazioni, devi avere l’utero. Ergo, per avere le mestruazioni, devi appartenere ad uno specifico sesso biologico. Dunque, al di là delle proprie (giuste e libere di esprimersi appieno) inclinazioni, esiste un maschio ed una femmina, diversi biologicamente e strutturalmente. Non si sfugge da questa dicotomia naturale che è alla base della crescita e della sopravvivenza della stirpe umana.
Ebbene, nella spasmodica ricerca di nuovi pretesti per combattere la “guerra santa” a concetti e definizioni oggettivamente assodati da secoli, i detrattori del buon senso hanno tirato fuori dal cilindro la quaestio legata alla intersessualità, ovvero soggetti che nascono con caratteristiche prese da entrambi i sessi per specificare come il cambio di sesso sia qualcosa di “previsto” da madre natura per la razza umana. Anche, qui, ovviamente, si è presa una angolazione di comodo in modo da auto-assegnarsi i lumi della ragione: l’intersessualità, chiamata sindrome di Morris, spesso come detto utilizzata come argomento “crudo” per stabilire come esista una transizione sessuale naturale, è una alterazione cromosomica che interessa lo sviluppo sessuale. Nella larghissima maggioranza dei casi, i soggetti affetti presentano organi sessuali esterni ambigui, ma non presentano organi “interni” con annesse funzionalità specificatamente riproduttive. Nei risicati casi in cui gli organi “interni” adibiti alla riproduzione fossero presenti, ovviamente, essi sono “morti” o inacessibili. Ergo, anche in questo caso, zero mestruazioni, zero “reale” transizione ma solo una “multi-sessualità” legata ad aspetti principalmente estetici e limitati. I transgender FtM restano comunque ampiamente fertili se interrompono la cura ormonale? Perché sono donne, al di là di quello che sentono. Una situazione irreversibile o reversibile solo parzialmente (purtroppo per loro, sia chiaro).
L’identità sessuale è però anche stata “vittima” di un continuo cambio di senso, andato pari passo con la modifica del “sentire” culturale. In alcuni dei citati “articoli” di critica, si è proposta la definizione delle organizzazioni della sanità mondiale come verbo assoluto. Le stesse organizzazioni mondiali della sanità che, lo ricordiamo, in piena emergenza Covid hanno sudato e parecchio, barcamenandosi tra soluzioni draconiane (figlie dell’assenza di una seria pianificazioni della Salute pubblica) e smadonammenti silenti su quali pesci pigliare. Ad esempio, in uno degli articoli (quello “spiegato bene”) è citata la definizione di identità sessuale derivante dall’Istituto superiore di sanità italiano (Iss), come argomento inequivocabile e oggettivo. Una definizione che propone una identificazione del concetto di identità sessuale che è, sostanzialmente, quello accettato istituzionalmente da quasi tutto l’occidente. La definizione dell’Iss, a mio avviso, abbraccia il politicamente corretto in modo evidente, ma esiste una oggettività: l’identità di genere è un sentore personale potenzialmente variabile (e le de-transizioni iniziano ad esser tante), il sesso biologico no. L’utero può esser “toccato con mano”, dunque è oggettivo. L’identità sessuale personale no (ma le scelte personali, nel limite del buon senso, vanno sempre rispettate se non nuocciono alla comunità).
La Rowling, il “de-transitioning” e le suggestioni di gruppo
Facciamo un passo indietro: dopo il tweet ed il successivo shitstorm, la Rowling si è vista costretta a tirar giù un lunghissimo articolo in cui spiegava (in modo non necessario, vista la non meglio precisata identità dei suoi “giudici”) le ragioni della sua affermazione ed il suo (insindacabile) vissuto per dimostrare che no, ella non è transfobica. Naturalmente, la questione ha aizzato ancor di più i citati giudicatori, specialmente riguardo ciò che la Rowling ha asserito nei riguardi dei cambi di orientamento sessuale, ovvero che potrebbero anche (e sottolineiamo anche) derivare da una corale suggestione e non essere una decisione concretamente ponderata. Una blasfemia per gli odiatori seriali della ferrovia (a.k.a non binari) quasi sia una oscenità asserire che chi cambia sesso non sia perfettamente lucido e che non abbia ripensamenti. Davvero tutte le decisioni che prendiamo, anche quelle “vincolanti”, sono sempre chiare, limpide e cristalline? Davvero ogni nostra mossa è pura derivazione del nostro raziocino scevro da ogni forma di influenza sociale e/o intellettuale? Naturalmente no. Ma al di là dei concetti, vi sono dei dati inoppugnabili che rendono ancora una volta, l’assolutismo delle nuove generazioni fallace e decrepito.
Il “de-transitionig”, ovvero il tornare indietro dopo una operazione di cambio di sesso, è una concreta realtà. Ci sono tantissime associazioni no profit a livello globale, nate appositamente per consentire di “ritornare sui propri passi”. E sono tantissimi i casi di “ripensamenti”. Ci sono persone che cambiano sesso, ci sono persone che cambiano idea: dov’è il problema? Un esempio di qualche anno fa. Ma vi sono anche dei concreti ed inoppugnabili dati statistici: c’è una esplosione di cambi di sesso, con annessi un gran numero di “ripensamenti” molti dei quali taciuti proprio per paura di ripercussioni derivanti dall’attivismo radicale (abbiamo già dimenticato le magliette “I Punch Terf” macchiate di finto sangue? Abbiamo già dimenticato gli attacchi violenti dell’attivismo trans che avvengono sempre più spesso nel mondo? O di alienazioni dalle “settarie” comunità di appartenenza? Perché, come purtroppo è vero per ogni categoria umana, anche nella comunità Lgbtq+ vi sono scalmanati e persone non particolarmente democratiche (fortunatamente, pare, la nettissima minoranza).
Tra disforia sessuale e suggestione di massa
La Rowling, nel suo lungo intervento, cita a proposito della “suggestione di massa” anche un altro dato interessante, quello relativo alla Rapid Onset Gender Dysphoria, derivante da uno studio condotto in cui, improvvisamente, gruppi di bambini e/o adolescenti aventi una concreta relazione sociale tra loro, iniziarono ad avvertire segnali di “disforia sessuale” (ovvero, il non sentirsi il “sesso naturale” addosso) contemporaneamente. La Rogd, per quanto non ancora ufficialmente riconosciuta dalla comunità scientifica, ha innescato critiche aspre (la maggioranza, dall’attivismo radicale) ma anche concreti supporti: dunque, come accade sempre nell’ambito scientifico, non è un qualcosa che si può, semplicemente, depennare perché “fastidioso politicamente”. Non si può scartare, aprioristicamente, l’idea che esista una sorta di suggestione sociale attiva che induca le persone ad abbracciare idee “estreme” (ci siamo dimenticati dello “scherzo” di Welles?). Tra le altre cose, la maggioranza delle critiche piovute sulla principale ricerca compiuta nel campo, quella di Lisa Littmann, sono state incentrate sul fatto che l’intero studio si basasse sulle “impressioni” dei genitori lasciate tramite sondaggi online e non sulle sensazioni dei bambini.
Dunque, un genitore non è un testimone (relativamente) attendibile? Non ci sono indizi e comportamenti di routine di un bambino che possano indurre un genitore, quanto meno, a giudicare o ad avere un’idea concreta di quel che accade? Un genitore non ha occhi e orecchie? Quanto è cosciente un bambino del mondo che lo circonda e delle scelte che esso compie, in relazione principalmente agli “effetti collaterali” che le stesse potrebbero avere? Domande complicate a cui rispondere e che, comunque, non porterebbero a risposte certe e assolute, specialmente quando si parla di una questione delicatissima come la transizione sessuale. Anche perché, ed è un dato da considerare, una buona parte dei cambi di sesso avviene in giovane età (con un trend che, pericolosamente, punta a scendere sempre più in basso sino a lambire le soglie dell’infanzia). Siamo certi che un ragazzino di 15/16 anni (o anche meno) cambi sesso perché ha le idee chiare? Può esser di si, ma può anche esser, come accade per ogni altra cosa a quell’età, che sia influenzato da meccanismi sociali di natura “tribale”e da suggestioni del momento. Dare totale libertà a chi, per ragioni anagrafiche, non può statisticamente operare scelte complete o profondamente ragionate, può anche significare devastare la persona e, con essa, parte della comunità. Per questo, il rispetto della scelta (insindacabile) dovrebbe essere uno step solo successivo ad una ragionevole discussione, quando al centro della questione v’è un bambino o un adolescente. Nonostante la Rogd non sia ancora ufficialmente accettata, lo ripetiamo, non possiamo non tenerla in considerazione totalmente: d’altronde, il processo di evoluzione scientifica è pieno di teorie assodate, poi improvvisamente affondate (come la frenologia, ad esempio), oppure al contrario, di teorizzazioni vessate ma poi lentamente solidificatesi (come i primissimi studi sugli effetti nocivi del tabacco, che all’inizio era addirittura considerato un toccasana per i polmoni).
Il boicottaggio di Hogwarts Legacy: i partigiani delle interazioni social
Alla base del “pugno pop” all’intellettualismo anche a costo di frantumarsi lo scroto di fantozziana memoria, vi era la necessità sociale e popolare di ricordare che le barriere erette in base alla enumerazione di nozioni e titoli (spesso, diretta discendenza del proprio stato sociale), in realtà, sono costrutti che vanno giù con un alito di vento (soprattutto se il popolo s’incazza). Ed è per le ragioni sin qui elencate che boicottare Hogwarts Legacy è una «cagata pazzesca» di dimensioni epocali. Non solo perché basata, come ampiamente descritto, su di una guerra che non è né chiara e né santa, ma fosca, ideologica per sport e dai toni che ricordano il (tanto caro ad alcuni, soprattutto in questo periodo storico) ventennio fascista. Ma anche perché, nei fatti, non produrrebbe danno alcuno, se non a chi ha sviluppato il gioco, né tanto meno un guadagno culturale di alcun tipo. Dunque, il boicottaggio del gioco è una forma “non violenta” di resistenza? Direi di no. Non solo moralmente (resistenza a cosa? Ad una battuta e ad un discorso non perfetto ma sensato?), ma anche concretamente e nelle proprie insite finalità.
L’autrice di Harry Potter, premettendo che è stata solo limitatamente coinvolta nel progetto, è (meritatamente) molto ricca. Dunque, il non comprare il gioco produrrebbe per lei danni finanziari estremamente relativi. Al contrario, però, boicottare il gioco significherebbe provocare potenzialmente ingenti danni a sviluppatori e produttori, innescando eventualmente uno tsunami finanziario che potrebbe portare anche tagli e padri e madri di famiglia senza lavoro (cosa che, tra l’altro, sta di già accadendo tra le grandi del Tech). Concretamente, la saga di Harry Potter è una fiaba che mette al centro l’amicizia, il coraggio, il rispetto della diversità e l’importanza dell’essere “insieme”: concetti importantissimi soprattutto per l’utenza a cui l’opera si riferisce, ovvero (tendenzialmente) bambini. Un’opera, quindi, dall’alto valore pedagogico (e i professionisti del settore hanno scritto tantissimo in merito) a cui si dovrebbe… resistere? Per fare un “dispettuccio”? Al di là dell’opinione sul tema, autore ed opera sono due concetti diversi. Tutti apprezziamo il Dalì artista, non particolarmente l’uomo che si “coricava” con le galline. Tutti apprezziamo il Van Gogh artista, non quello auto-distruttivo e dedito alla mutilazione. Boicottare è stupido e inutile, a mio modesto avviso, su tutti i fronti se non v’è concreta ed assoluta ragione. Non serve a danneggiare la Rowling, non porta benefici alla “causa” (qualsiasi essa sia) ma eventualmente danneggia un’opera d’ingegno umano dall’alto valore pedagogico e danneggia, eventualmente anche irreparabilmente, la vita di chi il gioco l’ha finanziato e costruito. Riassumendo: resistenza inutile, resistenza fallimentare (ma fortunatamente, visti i dati di vendita iniziali, la maggioranza degli utenti ha avvertito a “naso” l’inutilità della cosa).
Il momento della riflessione
È giunto il momento della riflessione. Concludo questo mio lunghissimo intervento (ma lontanissimo dall’essere esaustivo, vista la complessità relativa dell’argomento) asserendo quanto detto nel paragrafetto iniziale: è una questione delicata e, razionalmente, è impossibile schierarsi da un lato o l’altro senza accettare alcuni “arrotondamenti” concettuali. Nessuno ha totalmente ragione, nessuno ha totalmente torto, ma la verità concreta giace nel mezzo: le persone DEVONO essere libere di agire e di perseguire i propri scopi e le proprie inclinazioni, nel limite del buon senso (e della legge). La libertà deve “arrendersi” però al concetto di “meglio per la comunità” e non deve devastare quanto di assodato e solido ci resta (che, tra l’altro, è davvero poco). Il meglio dovrà esser discusso, civilmente, ed elaborato assieme, cercando per quanto possibile di non danneggiare nessuno. Per le guerre ideologiche, sono spesso giuste, ma sono altrettanto spesso forzate. Ed una guerra forzata, sparge solo letame senza far crescere alcun fiore.
P.S.: Nell’articolo sono stati forniti dei link a siti o organizzazioni con una visione “ristretta” dell’argomento. La cosa, ovviamente, non premette la mia automatica adesione in toto alle idee alla base dei citati siti od organizzazioni. Il processo di link è frutto solo di una comodità argomentativa e di segnalazione di dati, numeri e vicende utili alla discussione.