L’editoria videoludica italiana – e non solo – è, per certi versi, un’arguta barzelletta per fin(t)i palati, non per mancanza di capacità o conoscenza, ma per i presupposti concettuali: un mercato durissimo, pochi attori rabbiosi che “mordicchianno” lo stesso osso, sparuti mezzi di sostentamento e una spietata concorrenza di streamer e influencer che, tra una boccaccia ed un capezzolo in fallo (dopo tante prove per farlo sembrar vero), detengono lo scettro assoluto della (pseudo) informazione videoludica. Tutto, alla fine, confluisce in un’unica soluzione per sopravvivere: le sponsorizzazioni. Quindi, qual è la credibilità dell’opinione di una categoria che dipende, in larghissima parte, dalle pubblicità dei prodotti che dovrebbe “criticare” per indirizzare agli acquisti? Un incipit doveroso, perché i videogame non sono “roba seria”, soprattutto ora che la gente muore per un virus, ma lo sono eccome se si pensa alla mole di danaro ch’essi muovono. Senza considerare, al contempo, il valore assoluto ch’essi rivestono a livello di mera comunicazione concettuale: quanti bambini “apprendono” tramite un videogioco? Siamo sicuri, una larghissima fetta.
Rewind, secco: parliamo di The Last of Us Part II. Soprattutto, parliamo di una clamorosa levata di scudi, aprioristica e dogmatica e che ha fatto ricordare lo stesso moto innescatosi tempo addietro per il “capolavoro” Death Stranding, esercitata dai soliti “attori principali” dell’informazione videoludica, costretti a parlare di Grandi Fratelli e delle lacrime dello streamer di turno per tirare a campare. Una corsa alle armi innescata dall’ultimo video gameplay pubblicato del gioco che, in circa dieci minuti, ha alternato commento degli sviluppatori a spezzoni di gameplay. Un gameplay che sembra aver introdotto alcune novità, tra nuovi infetti, una mobilità complessiva che sembra più snella e meno legnosa del passato e, in generale, un feeling più action e dinamico dovuto anche al cambio di protagonista principale. Ma, al di là delle impressioni, una larga fetta dell’utenza ha manifestato, anche con una certa ironia, che il secondo chapter delle (dis)avventure di Ellie & Co. non parrebbe esattamente innovativo e distantissimo dal primo capitolo. Una critica lecita, forse prematura, ma che, in un mondo che conserva ancora una parvenza di democrazia (ma è solo la copertina del libro, tranquilli), ognuno può e deve fare anche per indirizzare, in un certo qual modo, l’operato dei developer.
Ma cos’è accaduto? Apriti cielo: la nostra (a)critica nazionale, si è quasi integralmente scatenata a difesa del povero “ludo ferito”, con editoriali “pat-pat sul capo” che si son scagliati sulla natura prematura dei commenti (per carità, un punto di vista lecito ma non assoluto), sul lavoro “notturno” delle madri dei commentatori (con giri di parole elegantissimi, tra l’altro), sul senso della vita. In modo particolare, da più voci, si è levato un canto non molto intonato, più vicino all’essere uno stridente tamburellar d’unghie su degli specchi bagnati d’olio, per non cadere nel baratro dell’indifendibilità, che una mistica melodia. Il canto corale avrebbe puntato il dito contro il concetto stesso di «innovatività», divenuto un vocabolo «odioso» ed una finta necessarietà ed un costrutto fallace e artificioso. Cosa non si fa per protegger la pagnotta.
Tutto questo, mentre difendono un action in terza persona del 2020 che, anche una talpa ipovedente, saprebbe distinguere da Pong. E perché ci riesce? Ahem… innovazione. Ma perché The Last of Us Part II non sarebbe innovativo (anzi, sarebbe “innovativo in sé stesso”, qualsiasi cosa significhi)? Perché, deve raccontare una storia «brutale». Un po’ come dire che uno non si compra una Ferrari, perché deve farsi una frittata: razionalmente parlando, il legame concettuale è quello. Anzi, è forse paradossalmente ancora più risibile, se si provasse a risponder per tono: provate ad immaginare un Heavy Rain, smontato e ricomposto come se fosse un qualsiasi Uncharted like? Un pastrocchio terrificante. Heavy Rain è Heavy Rain anche grazie al tentativo originale (seppur non il primissimo temporalmente) di impostare le meccaniche di gioco in modo diverso, raccontando una storia affascinante e con diversi colpi di scena. Insomma, meccaniche originali e storia ben realizzata. Ma di esempi ce ne sarebbero a bizzeffe.
Una levata di scudi, dicevamo, che ha toccato anche punti di totale “paranormalità”. C’è chi lo ha definito «innovativo rispetto al passato capitolo ma non in generale», un po’ come definirsi «sono il più bello de mondo perché più bello di mio fratello» facendo finta di non vedere altri 7 miliardi e rotti di persone che calpestano il globo e ne consumano l’ossigeno. Addirittura, si è andati oltre: questa presunta innovazione passerebbe da una struttura non open world (quindi, matematicamente limitata) che consentirebbe approcci diversi proprio grazie ai propri stretti margini. Anche in questo caso, sarebbe un po’ come dire che una prateria offra meno “approcci” di un monolocale. Insomma, limiti e tradizione è bello, innovazione e apertura è brutto: ah, cosa non si fa per “sfamare i propri figli”, senza farsi mancare quel pizzico di immotivato fanboysmo che ci rende più sbirluccicanti agli occhi dei “capi”. Un fanboysmo auto-indotto, che non è null’altro che un auto-indorare una triste e amara pillola: ci si deve “vendere”, in questo settore, per “viverne”.
Una levata di scudi che, ad alcuni maligni (fra cui il sottoscritto, per intenderci) ha innescato un buffo quanto terribile pensiero: non è che siamo dinanzi ad un altro Death Stranding? Tantissimo fumo e pochissimo (e faticosamente apprezzabile) arrosto (a meno che non vogliate diventare dei fattorini, alché il gioco diventa automaticamente una rivelazione capovolgente)? Non è che si difende a priori su “suggerimento”, mettendo il carro dinanzi ai buoi per qualche tipo di “paura”? D’altronde, per noi i videogiochi sono ancora passione: per chi li produce, in larga parte, un modo per riempire i propri estratti conto. Senza dimenticare un altro, difficilissimo da deglutire per chi ama sul serio questo settore, fattore: il becero “copycattismo” che da qualche lustro domina incontrastato il mercato. E non bisogna fare un enorme sforzo mnemonico per vedere come un titolo dal discutibile valore intrinseco (facciamo un esempio? Fortnite) possa, grazie ad una campagna marketing di successo, orientare una fetta immensa di mercato, non solo dal punto di vista degli acquirenti ma anche da quello intrinseco dei concept di sviluppo. Ora, immaginate quanti soldi sono stati investiti (male) per copiare un gioco, come detto, discutibile. Un danno, per il media di comunicazione del futuro, immane. Indovinate, però, qual è la soluzione a tutto ciò? Eh si, proprio quella parolina magica tanto odiata dagli (a)critici nostrani.
Ma, la verità, onesta e cruda, è che sperimentare è difficile e pericoloso: anche perché, il mercato è in mano a ragazzini urlanti con le carte di credito di mammà. E, fra questi, un’altissima percentuale è stata abituata, a furia di tette, culi e bestemmioni su Twitch e affini, ad accettare per buono un bassissimo livello qualitativo delle produzioni, su cui le case di sviluppo investono più tempo nel creare meccanismi “trappola” al limitar del gioco d’azzardo, piuttosto che contenuti e messaggi, soprattutto, da inserire all’interno. Perché il videogames, è stupore tecnologico e insegnamento: due componenti fondamentali e che si guardano, da lontano, tenendosi per mano. Anche perché innovare (e lo si può fare con un racconto o con una meccanica differente), significa anche costringere gli altri a “spostare di un po’” l’asticella verso l’ignoto, che è proprio il senso stesso del perché, dopo decenni, continuiamo ancora ad attendere frementi l’E3: «Cosa c’è di nuovo?». L’innovazione è tutto, si rassegnino gli (a)critici nostrani. Anche perché, per quel che mi risulta, non mi sembra nessuno di loro giochi con il Magnavox Odyssey. Infine, l’ultima annotazione: cosa ne penso di The Last of Us Part II? Semplicemente, che è troppo presto per criticare o difendere a spada tratta il gioco visto che, effettivamente, nessuno ha avuto modo di esplorarlo a dovere. Ma, vista l’enorme attesa e l’indubbio valore del precedente capitolo da un punto di vista ludico e soprattutto meta ludico (con buona pace dei gay hater, il mondo si muove in una direzione a loro avversa e che non possono cambiare), è naturale tendere verso l’idea che possa essere uno dei titoli, commercialmente parlando, più importanti di questa generazione di console che si appresta, di qui a qualche mese, a “morire”.