Correva il 2000, l’anno in cui di lì a poco il Dreamcast avrebbe fatto il suo esordio nel buon Vecchio Continente , dopo i lanci non proprio convincenti in USA e terra del Sol Levante. Tuttavia, il triste destino riservato all’ultima console di casa SEGA è ormai passato alla Storia, così com’è storia il fatto che quel gioiellino a 128bit, forse fin troppo avveniristico per l’epoca, ha avuto comunque il tempo di regalarci saghe immense e senza tempo. Fra tutte, quella di cui già solo il titolo trasuda contemporaneamente mistero, fascino e romanticismo, risponde al nome di ” Shenmue” . Sensazioni amplificatesi col tempo soprattutto perché la saga è poi rimasta incompiuta fermandosi, come si suol dire, proprio “sul più bello”; un vuoto incolmabile in quello che sarebbe dovuto essere il disegno completo di Yu Suzuki , all’epoca, e fino a poco tempo fa, vera icona dell’universo SEGA nonché chief del leggendario team AM2 . Una storia, quella di ” Shenmue” , dal retrogusto amaro e nostalgico.
Il potere degli specchi
Sono parecchi i tasselli che componevano fin da subito il fitto intreccio narrativo del gioco, che si poneva al giocatore come un crescendo continuo di emozioni, le quali culminavano paradossalmente nel momento stesso in cui venivano stroncate. Beh, in teoria dovremmo parlare di ” Shenmue” per parti, ma la numerazione delle stesse, prima e seconda, rappresenta una semplice convenzione. Due parti, infatti, con la seconda che iniziava esattamente dove e come finiva la prima, compongono l’opera (in)completa che prende piede in Giappone per poi “sbarcare” (letteralmente e metaforicamente parlando) in Cina, costituendo, a tutti gli effetti, un viaggio alla scoperta di un mondo, quello orientale, ricco di fascino e poesia. Poesia , è questo il cuore pulsante dell’intera opera, il principio secondo il quale tutto, in ” Shenmue” , si muove, prende vita e si evolve romanticamente . Un’avventura che inizia nel corso di una grigia e nevosa giornata invernale, con il giovane Ryo Hazuki che, di ritorno a casa, ripercorre delle tipiche vie giapponesi, completamente ignaro della tragedia incombente. Una scena, quella dello scontro tra il padre e del “maestro stregone” cinese Lan Di , che riecheggia tuttora nella mente dei giocatori, spettatori di una tragedia che vede un figlio perdere il proprio padre per uno “specchio”, “The Mirror”; un misterioso artefatto così bramato da spingere un uomo ad uccidere un suo simile. Dopo averlo visto morire sotto i propri occhi, la promessa spirituale che Ryo rivolge al padre è una soltanto: Vendetta .
Metafora vivente
Da lì, dalla fredda “domus giapponese” di Ryo iniziava l’avventura del nostro eroe romantico, un semplice ragazzo che improvvisamente si ritrova nelle vesti di Uomo , costretto a sopravvivere e a vagare alla continua ricerca di quelli che, inizialmente, sembrano essere solo gli indizi di un “caso”. Ma se la prima parte del gioco rimaneva confinata alla terra d’origine di Ryo-san, il viaggio che ” Shenmue” propone al giocatore, soprattutto quando la “caccia” a Lan Di si estende ad Hong Kong, altro non è che una particolare metafora della Vita . Una metafora che racchiude valori quali l’amicizia, la solidarietà, la lotta continua per la conquista/difesa della libertà (con conseguente associazione al mondo delle arti marziali) ed il sacrificio, ma che trova anche il tempo di sottolineare le differenze ideologiche tra le stesse culture orientali per eccellenza. Ma a colpire profondamente era la particolare cura riposta nella caratterizzazione dei personaggi, Ryo Hazuki in primis, e della loro psiche. Da ognuno di essi trasparivano, fossero questi comprimari, antagonisti o persino personaggi non giocanti, “emozioni”. Questa eterogeneità di elementi era tra l’altro garantita da una presenza “attiva” dell’intero mondo di gioco, pullulante di “individui” virtuali in grado contribuire, chi più chi meno, alla causa di Ryo . Ecco dunque che il semplice dialogo con un bambino si trasformava in una buona occasione per dare consigli su come accudire un cucciolo di gatto ritrovato in giardino; o, ancora, parlare con un anziano all’interno di una taverna significava apprendere aneddoti sulla tradizione popolare giapponese/cinese o ricevere preziosi consigli su nuove tecniche di combattimento, così come un qualsiasi scaricatore di porto o operaio di fabbrica poteva darci indicazioni su un’eventuale offerta di lavoro presente sul posto. Sì, perché ” Shenmue” era principalmente questo: prender parte alla vita sociale nel senso stretto del termine; conoscere persone, instaurare rapporti d’amicizia, cercare lavoro per sopravvivere e pagare l’affitto della camera d’albergo, ma anche soffermarsi all’interno di un monastero o di un negozio di antiquariato e ammirare le molteplici sfumature dell’Arte orientale. Imparare comunque qualcosa, “assorbire” una certa filosofia di vita. Tutto questo impreziosito da un contesto storico, quello degli anni ’80, che contribuiva ad esaltare il progressivo cambio generazionale dell’epoca. Giacca marrone di pelle (con tanto di drago disegnato sul retro), maglietta bianca e blu jeans: questo è il Ryo Hazuki tratteggiato nel gioco, un ragazzo semplice che, a sua insaputa, si trasformerà in un eroe romantico mosso dal desiderio di vendetta, dalla passione per le arti marziali e dal coraggio.
L’eredità di una Rivoluzione
Tutto è partito da ” Shenmue” . Il concetto moderno di Free-roaming? Da ” Shenmue” . La reinterpretazione del “Quick Time Event”? Idem. La creatura di Yu Suzuki è così complessa ed articolata che ci vorrebbe un manuale per elencare tutte le possibili varianti offerte dal gioco. Basterebbe pensare che prendere confidenza col gameplay richiedeva tempo e pazienza, vuoi per una certa macchinosità di fondo vuoi per la stessa libertà di movimento, per l’epoca rivoluzionaria e disorientante. Il gioco, quindi, era impostato secondo una struttura “aperta”, che ci consentiva di girovagare per le affollate strade di Yokosuka prima ed Hong Kong dopo, e raggiungere i luoghi di interesse semplicemente chiedendo indicazioni, memorizzando le vie dei vari quartieri e così via. Come nella vita reale. Ma ” Shenmue” non era semplicemente un girovagare ed esplorare continuo: a supportare la solida e complessa struttura free-roaming ci pensava una componente picchiaduro/action di tutto rispetto. I combattimenti tradizionali si restringevano “a cerchio”, con Ryo posto costantemente al centro della scena. L’approccio non solo si rivelava ostico, ma anche particolarmente tecnico: saper dosare e concatenare i vari colpi, cercando di dar vita a combo sempre più devastanti, e sincronizzare gli stessi movimenti, erano i requisiti necessari per avere la meglio anche contro più nemici alla volta. A tradizionali situazioni di gioco, si aggiungevano poi le famose sequenze “QTE”, durante le quali era richiesta una certa prontezza di riflessi nel premere in tempo i vari tasti del pad, in corrispondenza di quelli che apparivano man mano su schermo. Ed è qui che possiamo persino ritrovare la vera genesi delle “sequenze cinematografiche” interattive, le stesse ereditate da titoli next-gen del calibro di ” Uncharted 2″ (gioco dell’anno nel 2009) e ” God of War 3″ .
Ma ” Shenmue” era soprattutto questo: un Gioco . Girando per le strade potevamo incontrare persone alle prese con una sfida a braccio di ferro o ad un qualsiasi gioco di carte o da tavolo, e prenderne parte nel caso lo desiderassimo. O, perché no, entrare in una sala giochi virtuale, comprare qualche gettone ed ingaggiare “retro” scontri aerei con il primo “After Burner” o sfrecciare a bordo di una Testa Rossa nel leggendario “Out Run”. Volendo, anche bussare alla porta di una casa qualunque e aspettare che qualcuno l’aprisse per chiedere informazioni. Cosa c’era di strano? Era tutto così naturale, eppure di titoli così non ne esistono più, anzi, il genere si è evoluto attingendo da ” Shenmue” solo la mera superficie. E per quanto possa essere considerata un’opera incompleta, sarebbe tuttora ingiusto privarsi di un’Esperienza videoludica ancora oggi unica ed inimitabile.