Non è affatto facile essere un videogiocatore affamato e appassionato oggigiorno, soprattutto se si è passato gli “-enta” da qualche anno. Non solo perché, dopo un’illusoria fase di maggiore dignità mostrata nei confronti dell’arte videoludica, oggi nell’era dei game as a service (a.k.a slot machine) e al contempo nell’era dei “titaneggianti” ragazzini dotati di carte di credito, di gare a chi si spoglia di più in cam, porcate trash e spettacolarizzazione infima, videogiocare oggi ancor di più rispetto al passato è un qualcosa per “bambini”. Bambini che, come tradizione, si abbandonano sostanzialmente ad un’unica attività: quella di piangere. E il pianto ininterrotto, dovuto principalmente alla loro insaziabile voglia di primeggiare, di essere più forti, di soverchiare il debole in un attimo non ha eguali: si sa, essi sono fra gli esseri (pseudo) senzienti più crudeli che madre natura abbia concepito (ma, ahi loro, sono solo lo specchio della società di cui imitano le movenze). Se a questo si unisce la loro proverbiale limitatezza cerebrale, dovuta ovviamente alla loro tenera età, ciò crea un effetto tsunami spaventoso che si abbatte “a bomba” sull’intera industria che vede in quei bambini dei “profetici” portafogli bucati. E l’effetto tsunami ha ormai apocalitticamente devastato l’ambito del mobile gaming, che ne hai fatti è oggi nulla più che uno sforzo computazionale sindacale utile solo ad “inscatolare” quante più pubblicità possibile e, al contempo, quante più opportunità di spendere soldi reali, a.k.a slot machine, possibile. Ma bambini e apocalisse, intellettualmente parlando, vanno d’amore e d’accordo: ecco perché il mobile gaming è nei fatti la più redditizia macchina da soldi legata al mondo dei videogiochi. È una sorta di El Dorado per tutti quei consigli di amministrazione composti da persone che la Playstation o l’Xbox l’hanno probabilmente vista solo tramite vetrine. Distrattamente. Perché El Dorado? Ma è molto semplice: tendenzialmente, sviluppare un gioco mobile è facilissimo e infarcirlo di meccaniche al limite del gioco d’azzardo o di pubblicità, spesso di altri giochi mobile e spesso completamente distanti dalla reale offerta ludica dei suddetti videogame, che in altri ambiti non si farebbe fatica a definirle “ingannevoli”, è davvero un gioco da ragazzi.
Poi c’è un altro fattore da considerare: l’enorme mole di giocatori casuali che negli ultimi anni si è avvicinata al mondo del gaming tramite la “strada spianata” del mobile. Persone che, per le motivazioni più disparate, non hanno mai assaggiato davvero cosasignifica videogiocare. Non hanno ad esempio idea di cosa significhi completare Red Alert, abbattere tutti i boss di un Dark Souls, arrovellarsi nella risoluzione di enigmi ardui e strampalati in stile Monkey Island. Un po’ per disinteresse intellettuale, un po’ per moda (ma quand’è cambiato il vento, eccoli tutti a bordo!). Giocatori casuali che si approcciano all’ambito gaming e che vengono drogati letteralmente da ambienti di gioco dove la sfida, viene insegnato, si può superare solo investendo tante risorse. Dapprima, guadagnandole semplicemente giocando uno sproposito di ore. Successivamente, con l’aumentare estremo della difficoltà di gioco appare palese a tutti che l’ammontare di ore di gioco non è più una soluzione: l’unica via, a quel punto, è quella di sguainare l’arma più potente che l’ambito videoludico su mobile abbia mai conosciuto, ovvero la carta di credito. Ciò ha creato un improponibile sovrannumero di videogiocatori abituati a spendere decine di euri al giorno per potenziare il personaggio e superare il livello, al contempo pigiando sullo schermo un tastino che li conduca direttamente al cattivone da abbattere e, perché no, magari automatizzi anche il combattimento per evitare lo “sbattimento” di elaborare una strategia o di subire una sonora sconfitta e “perdere tempo”. Ed ecco che quindi, nella fattispecie delle cose, il mobile gaming è nulla più che una roulette creata spesso da società con sedi legali “presunte” e dal nome “clonato”, sponsorizzato in modo tendenzialmente ingannevole e costellato di prodotti tutti uguali, con i giocatori che sono nulla più che spettatori paganti.
L’apocalisse: tra “auto-ludi” e carte di credito
Ma, diciamocelo chiaramente: per chi come me da anni ha eletto il gaming come una delle sue principali passioni, l’ambito mobile ha quasi esclusivamente rappresentato una sorta di micro ictus localizzato e ampiamente tamponato in un enorme encefalo colmo di vibranti stimoli elettrici. Ma quello che sta succedendo, soprattutto negli ultimi mesi, non può che indurre ad una seria preoccupazione in tutti i videogiocatori che da anni sperperano tempo, energie, anatemi e risorse delle più disparate per giocare. Di cosa stiamo parlando? Della bestia che si è improvvisamente svegliata. Ancora meglio: a cosa mi riferisco? All’entrata in campo, secca e violentissima, di tutta una serie di grandi e storici nomi dell’industria videoludica che hanno deciso di investire tempo e risorse in soluzioni gaming multipiattaforma centrate sul “modus” dell’ambito mobile, sfruttando nomi altisonanti della stessa scena “seria” che non è possibile definire semplicemente “videogame” ma pietre miliari dell’intrattenimento di settore. Ma probabilmente, per rendere un po’ più concreto il discorso, si potrebbero fornire due esempi recentissimi: ci riferiamo a Nino Kuni Cross Worlds, mmorpg disponibile per PC e mobile, e il prossimo Diablo Immortal, anch’esso con “doppia piattaforma”.
Cross Worlds, ovvero: soldi e azioni “pucciose”
Partiamo da Ni No Kuni: il gioco, seppur conservando in larga misura il fascino artistico dei suoi predecessori più nobili (principalmente perché, a detti di molti utenti, condivide un numero spaventoso di dettagli e modelli “riciclati” dai precedenti capitoli), si è affacciato sul mercato in una forma non particolarmente smagliante, almeno per gli occhi di un giocatore “esperto”. Un gioco completamente automatizzato e stra-colmo di menù e sotto-menù di riscatto premi, dove chi vuol raggiungere un obiettivo sulla mappa senza sfruttare i meccanismi automatici di conduzione, avrebbe serie difficoltà ad orientarsi vista l’assenza di puntatori geografici chiari e dei più classici. Senza considerare che, in un classico mondo morbido e fatato tipico della penna elegantissima di Level 5, si nasconde un elaborato sistema play to earn sostenuto da un sistema di scambi in una blockchain. La cosa, assieme ad eventi dedicati al gioco “particolari”, (alcuni dei quali, esterni, anche non proprio correttissimi, come quello in cui si sarebbero invitati i giocatori a mettere voti a 5 stelle al gioco sugli store Android ed iOS), ha lasciato di “stucco” gli utenti. Un “risentimento” che ha inarcato più di un sopracciglio visto che, come si legge da alcuni utenti inferociti su Reddit, l’ambito competitivo del titolo virerebbe notevolmente verso formule a vantaggio di chi spende soldi. Ma non finisce qui: come hanno spiegato alcuni video su YouTube, in sostanza l’”auto-ludo” poggia su di un complesso ecosistema che ospita meccanismi che coinvolgono il guadagno di criptomonete e lo scambio di NFT, naturalmente “governato” da una sorta di micro cosmo finanziario dove si applicano, con le dovute riserve, le stesse regole della finanza (anche se, al momento, parrebbe non ancora integralmente funzionante e “avviato” guardando la roadmap del gioco).
Un sistema basato sull’ottenimento di due diverse monete di scambio, territe ed asterite, che al contempo possono esser altresì scambiate con dei token che, ovviamente, hanno un valore economico reale e possono essere acquistati con moneta sonante. E, come già detto, territe e asterite vanno direttamente ad influenzare la resa dei nostri personaggi, visto che con esse potremo acquistare non solo elementi utili per potenziare il proprio equipaggiamento, ma anche direttamente armature ed armi (e ve ne sono di già di potentissime nello shop). E nel mentre si moltiplicano le guide all’acquisto e vendita delle criptomonete nel gioco, resta comunque l’apparenza di un gioco squilibrato e orientato verso chi paga. Perchè, sì, le due currency possono esser ottenute anche in gioco, ma in modi difficili (ad esempio, attestandosi nel 10% della leaderboard pvp) o con una rigida limitazione generale (giornaliera, settimanale o correlata ad eventi stagionali). Ma, in concreto, con una carta di credito la situazione naturalmente diviene più “semplice”. Il tutto incorniciato da meccanismi ludici vecchi di più di 20 anni e, rispetto a rappresentanti dell’epoca dello stesso settore, addirittura semplificati e ridotti all’osso per l’essere il più elementare possibile. Dunque, cosa resta? Un software con solo una “impronta” videoludica, quasi integralmente automatizzato, con un gameplay risicatissimo e vetusto, colmo di micro-transazioni e con tanto di sistema di guadagno e spesa integrato in stile mercato azionario. Con buona pace dei fan di vecchia data di Level 5, Ni No Kuni ecc., ai quali è stata inferta una pugnalata mortale.
Un diavolo… immor(t)ale
Se si passa ad analizzare Diablo Immortal, gioco attualmente in Open Beta sia su PC che su telefono, la situazione non cambia di molto (anzi, per certi versi peggiora). Una new entry dell’immortale saga arpg che, in concreto, appare come una diretta emanazione (seppur per certi versi espansa) sia concettuale che estetica del terzo capitolo della saga. Personalmente, non ho avuto modo di testare in prima persona le meccaniche del gioco durante le fasi di test “chiuse”, ma la situazione sembrerebbe di già esplosiva da mesi leggendo il Reddit dedicato e ascoltando tutta una serie di Youtuber che si sono espressi in modi drammaticamente negativi sul gioco. Stando a quello che emerge dalle loro analisi, i meccanismi inseriti nel gioco, nonostante esso sia nei fatti un free to play, in realtà sembrerebbero virare nettamente e in modo irreversibile verso chi opterà per sborsare molti soldi addirittura ponendo, secondo quanto emerge dalle citate testimonianze, dei muri d’accesso in teoria “insuperabili” per gli utenti che decideranno di non pagare nulla e volessero, al contempo, addentrarsi in alcuni dei contenuti del gioco. Tutto si aggirerebbe nell’ottenimento delle “legendary crest”, fondamentali per poter accedere a dei varchi, sorta di dungeon “potenziati”, e avere una speranza (risicatissima, secondo le stime di alcuni) di ottenere gemme di livello alto utili al potenziamento del personaggio. Le citate legendary crest, a questo punto fondamentali, sono quasi esclusivamente ottenibili pagando tramite moneta reale. In parole povere il prossimo capitolo della leggendaria saga “nasconderebbe” tutta una serie di meccaniche che addirittura renderebbero impossibile o quasi per i giocatori free-to-play, ad esempio, competere con quelli paganti nel Pvp (che, alla lunga, sembrerebbe essere il “reale” end-game del gioco). Un player vs player che nel prossimo titolo Blizzard avrà un peso specifico enorme: basti pensare al “Circle of Strife”, una meccanica interessante inserita proprio nel novello Diablo e che, sostanzialmente, rende il pvp centrale nell’esperienza del titolo. In quest’ottica, massimizzare in modo assoluto il personaggio, secondo quanto espresso da parecchi Youtuber ed utenti “preoccupati” e che hanno testato la versione beta del titolo, costerebbe cifre folli, rendendo quindi i giocatori paganti praticamente irraggiungibili. Senza contare che, anche se si scegliesse di pagare, le cifre da sborsare sarebbero teoricamente astronomiche se si volesse davvero massimizzare il tutto, secondo alcune “speculazioni” fatte da utenti su Reddit. E, proprio negli ultimi giorni, si sono moltiplicati i video e gli articoli “scientifici” e che tentano di mostrare davvero la situazione in cui versa il titolo, oltre che a siparietti tragicomici sulla questione (qui e qui due dei tantissimi esempi).
Una situazione così seria che, come si è letto nei giorni scorsi, ha portato il gioco ad esser bandito da Belgio e Olanda, grazie a leggi stringenti (e più che giuste, andrebbe detto) contro i tristemente noti lootbox, nulla più che slot machine “in incognito”. V’è da dire, per dovere di cronaca, che Diablo Immortal non è l’unico gioco “bandito” per le stesse ragioni dai due stati. Dato l’enorme mormorio e la grande mole di lamentele (e basta scrivere “Diablo Immortal Pay to Win” su di un qualsiasi motore di ricerca), è molto probabile che Blizzard stia in modo silente correndo ai ripari cercando di affinare le meccaniche in modo da dare una possibilità anche a chi, per varie ragioni, non può permettersi di spendere centinaia di euro al mese. Ma, ovviamente, solo il tempo ci dirà dove giace la verità, se nella rabbia degli utenti o nel “silenzio” degli sviluppatori (anche se, continuando a spulciare Reddit non sembra sia cambiata di molto la situazione da quella descritta durante la beta). C’è un altro dettaglio “collaterale” da sottolineare: nonostante le problematiche abbiano da tempo innescato moti di “protesta” nella fan base e attirato decine di migliaia di visualizzazioni e commenti su YouTube e affini, pochissime testate videoludiche hanno affrontato l’argomento (che, nei fatti, è passato praticamente sottaciuto). Solo negli ultimi giorni, qualcosa è sembrato muoversi sul serio. Addirittura, recentemente, alcune redazioni hanno persino raggiunto gli sviluppatori per interviste e dichiarazioni: indovinate un po’? L’argomento “pay to win” non è stato affatto trattato oppure ci si è accontentati di risposte vaghe o “impressioni” degli stessi sviluppatori (che, ovviamente, erano ben “diverse” da quelle espresse da una buona fetta di utenza. Che strano!). E spiace anche constatare che, a pochi giorni dall’inizio della beta, una buona fetta di quegli stessi YouTuber che hanno “vergato”, con aspre critiche, le scelte opinabili da parte di Blizzard in materia di monetizzazione, hanno “reagito” alla pubblicazione del gioco … facendo live da 12 ore. Ma d’altronde, gli influencer sono spazi pubblicitari in vendita e senz’anima alcuna: nessuna sorpresa.
Se questo è un videogioco
Ma al di là di esempi di meccanismi ludici “opinabili”, a questo punto la domanda sorge spontanea: se sino ad ora Diablo o Ni No Kuni, così come tante altre saghe che esistono da tempo immemore e dal nome altisonante, si sono sempre proposte ad ogni iterazione con soluzioni con acquisto una tantum, perché improvvisamente “auto-mutilarsi” per “omaggiare” la propria fan base con un classico “free-to-play ma non troppo” in salsa mobile? Sì, la domanda ha una risposta semplice: i game as service sono quelli più redditizi proprio perché, tra bambini e parvenu del videogioco, le carte di credito son sempre più roventi. Ma perché sventrare saghe di livello altissimo, per avere guadagni mostruosi, se creando capitoli ordinari dal costo finito, si sarebbe potuto comunque guadagnare tantissimo, accontentare i fan e, di sicuro, non macchiare nomi di assoluta grandezza nell’ambito videoludico? I soldi giustificano sempre tutto? Massimizzare il guadagno è sempre un fine che giustifica ogni mezzo? È l’unica “verità”, in barba ad ogni principio di rispetto e lealtà nei confronti del proprio pubblico? E in più: la noia automatizzata, le infinite “currency” su cui teoricamente riversare il proprio denaro, le meccaniche semplificate “scimmiescamente”, l’assenza di personalizzazioni strutturate, gli “strati di contenuto” fittizi da “spalmare” sopra il cuore meccanico pay to win, la giungla degli NFT e delle criptomonete: è questo il futuro che i grandi publisher vogliono per noi? È questo il futuro che da gamer vogliamo?
Domande terribili che, in realtà, sono la manifestazione “convogliata” di una preoccupazione corale. Una preoccupazione che un videogiocatore che non abbia imbracciato un pad da meno di mezz’ora, non può che provare sulla propria pelle: l’ambito videoludico “nobile” è in procinto di essere irreversibilmente fagocitato dall’apocalittico pescecane mobile? I videogame tradizionali, cui siamo abituati da decenni, sono destinati a sparire sacrificati sull’altare del Dio Denaro e del guadagno? Giocare significherà nulla più che “assistere” ai meccanismi automatici predisposti dagli sviluppatori, nel frattempo di aver guadagnato i token e gli Nft da poter scambiare e/o vendere? E ancora: giochi free to play ma godibili appieno solo spendendo vagonate di moneta sonante, diverranno a breve uno standard anche nella scena videoludica “principale”? Domande difficili la cui risposta sembra, purtroppo, sin troppo scontata.
Che sia o meno l’inizio della “fine”, noi, qualcosa, possiamo farla: non diventare “carne per pescecani”, anche se sul piatto ci vien servita una “esca” gratuita e all’apparenza prelibata. Un gioco propone soluzioni “aggressive” di monetizzazione? Non scarichiamolo e non contribuiamo a creare tam tam social “positivo” attorno. E soprattutto, dovremmo difenderci da alcune “giustificazioni auto-difensive” che siamo soliti darci, specie se il nostro “cuor di gamer” viene inesorabilmente distrutto in tantissimi pezzettini. Dovremmo, infatti, imparare a “vomitare” definitivamente quella convinzione secondo cui “si, il gioco è pay to win ma solo se vuoi arrivare in cima. A me, interessa solo giocare senza patemi. Ed è gratis!”. Perché, sì, forse (ma forse, eh) oggi funziona così: vuoi essere il migliore? Paga. Ma, sorvolando sulla “bestialità” intellettuale dell’asserzione, v’è un altro rischio a lungo termine: ovvero, “basta un poco di zucchero e la pillola, va giù”. Ed è già domani, dove l’idea di spendere per essere al top potrebbe facilmente divenire “spender per essere”, continuamente e in modo folle. In aggiunta: gli “indifferenti” al male, come succede da eoni e in ambiti ben più seri e gravi dei meri videogames, sono “complici del male”. Volete giochi che siano solo una giustificazione estetica a scambi commerciali ed acquisti “milionari”? A voi la scelta.