A quasi un anno dalla mastodontica edizione definitiva del secondo capitolo della saga, ecco arrivare “sugli scaffali” virtuali degli store anche Age of Empires III: Definitive Edition, la rimasterizzazione del terzo uscito ormai quindici anni fa e che già allora non è stato capace, forse a causa dell’inevitabile paragone con le qualità che han reso il predecessore capace di resistere in modo praticamente perfetto alla prova del tempo, di colpire al cuore dei videogiocatori appassionati di strategia come ci si aspettava. Una rimasterizzazione che prima di tutto ha dovuto fare i conti proprio con questo pesante fardello, e che avrebbe dovuto trovare delle soluzioni in grado di risolvere quanto di criticabile il prodotto originale offriva: il condizionale è stato usato non a caso, poiché nonostante l’indubbio lavoro sul fronte tecnico e su quello legato allo snellimento di alcune meccaniche un po’ rigide, il gioco è rimasto sostanzialmente identico a sé stesso, comportando la presenza degli stessi punti di forza e, soprattutto, di debolezza che affliggevano il gioco uscito nel 2005.
Vediamo insieme come si è comportato il titolo dei Forgotten Empires durante la nostra prova.
Questo è “Microsoft’s Colonization”
Il contesto storico di Age of Empires III: Definitive Edition abbandona il set medievale per immergersi in quello più recente della modernità, un’epoca nella quale la colonizzazione dell’Occidente e gli scambi commerciali con l’Oriente divengono perno fondamentale della struttura economica del mondo e, da corollario, della narrativa del gioco. Quest’ultima abbandona l’accuratezza puramente descrittiva delle campagne storiche del secondo capitolo, in favore di un piglio maggiormente romanzato, nel quale le vicende personali dei protagonisti contengono anche gli elementi evenemenziali, politici e tecnologici tanto cari agli appassionati. Non è una cosa da leggere in un’accezione totalmente negativa, ma è innegabile il minore fascino che questa impostazione è in grado di suscitare sulla community formata in buona parte di amanti delle ricostruzioni storiche, sottoscritto compreso.
La storia segue le vicende della famiglia (allargata) Black, le cui fortune si intrecciano a eventi di indubbio peso accaduti tra l’assedio di Malta da parte degli Ottomani nel 1565 e i moti indiani contro l’oppressione della Compagnia britannica delle Indie Orientali del 1857, un set complesso e variegato che si dipana nel l’arco delle tre campagne del gioco di base, più le due contenute nelle espansioni ufficiali, The WarChiefs del 2006 e The Asian Dynasties dell’anno successivo. Ciò che ne consegue è una mole di contenuti di tutto rispetto, ma ben lontana da quella clamorosa della Definitive Edition del secondo capitolo che comprendeva, oltre alle campagne del gioco di base e quelle delle espansioni canoniche, anche quelle sviluppate nel corso di questi anni per una fanbase che ha continuato a richiedere nuovi contenuti per venti anni, senza soluzione di continuità.
Parlando del racconto, è da menzionare la volontà di “decolonizzare” la vicenda storica da quel sapore vagamente razzista che pervadeva qualche stereotipo di troppo, soprattutto riferito agli indiani d’America. Se appare un punto di assoluto merito, il tentativo è però riuscito a metà poiché i nuovi filmati in-game e le nuove linee di dialogo, prodotte esclusivamente in inglese, non riescono a sincronizzarsi con quanto appare su schermo nella traduzione italiana, che mantiene i dialoghi vecchi, forieri di una visione a tratti imbarazzante.
La modernità tra luci e ombre
Le meccaniche di gioco, come già accennato, sono rimaste praticamente le stesse del titolo di quindici anni fa, già criticato per il percorso di “semplificazione” che aveva intrapreso nel tentativo di diventare accessibile per un più grande bacino d’utenza: tra tutte la più pesante è quella che ha interessato la microgestione ridimensionata, le risorse di cui tener conto infatti passano dalle cinque classiche a tre (cibo, legno e pietra), una cosa che riduce inevitabilmente la necessità di inventare nuove strategie per poter fronteggiare la possibile scarsità di una di esse, vero e proprio leit motiv del franchise, soprattutto quando si gioca in multi su mappe casuali. Di sicuro interesse è la presenza delle Città Madre – la vera peculiarità in grado di caratterizzare l’intero gameplay di questo terzo capitolo – grazie alle quali sarà possibile ottenere benefici peculiari durante la partita, attivabili grazie a un mazzo di carte che andrà impostato prima di entrare in partita: le carte di cui si compone, però, andranno sbloccate grindando livelli e, nonostante l’operazione di acquisizione punti esperienza sia molto più veloce in questa Age of Empires III: Definitive Edition, la cosa ci è sembrata funzionare ancora poco. Di fatto è un elemento che fa perdere la possibilità di “provare” altre civiltà rispetto a quella sulla quale abbiamo puntato dall’inizio, soprattutto in multiplayer, perché poco competitive ai livelli più bassi.
Le civiltà sono decisamente ben caratterizzate, diversificate quanto basta per rendere ogni scelta peculiare dal punto di vista delle meccaniche di gioco. Giusto per citare qualche esempio… i Francesi hanno le unità più resistenti del gioco e possono, grazie a particolari abilità diplomatiche, stringere accordi con i nativi più vantaggiosi; gli Olandesi non reclutano coloni con il cibo ma li comprano con l’oro, una valuta che cresce costantemente grazie alle banche; i Russi riescono a puntare maggiormente sulla quantità che sulla qualità delle loro unità, ottimi per “sciamare” soprattutto in multiplayer. Ci sono tutte e quattordici le fazioni che hanno caratterizzato l’esperienza del gioco di Ensemble Studios, con l’aggiunta di due introdotte con questa edizione (Inca e Svedesi), a parer nostro ancora non perfettamente bilanciate.
Ben lungi dal risultare invalidanti come succedeva in determinati frangenti della Definitive Edition del primo capitolo, rimangono da sistemare ancora problemini di pathfinding che rendono frustrante qualche momento di gioco, soprattutto quando le unità a schermo superano la cinquantina.
Il lato tecnico è invece figlio di un lavoro ben fatto, tutto, dal restyling dei modelli alle textures migliorate, contribuisce a svecchiare un motore che già alla sua uscita non è stato capace di distinguersi. Anche per quel che concerne l’ottimizzazione ci attestiamo su livelli decisamente alti, un pc appena decente, anche con qualche annetto sul groppone, è capace di reggere fluidamente anche l’affollamento delle partite più concitate: nonostante quanto indicato dai requisiti consigliati sulla pagina ufficiale, un Ryzen di prima generazione (o un i5 di terza), 8 GB di RAM e una Radeon RX 570 sono sufficienti a offrire un’esperienza eccellente e perfettamente godibile in fullHD.
Concludendo…
Age of Empires III: Definitive Edition è un titolo più che decente, in grado di regalare tante ore di divertimento a chi saprà apprezzarne il mix di meccaniche classiche e semplificazione. L’aggiornamento grafico riesce a renderlo appetibile anche alle nuove leve di videogiocatori che nel 2005 erano forse troppo piccole per apprezzarlo a fondo, mentre le fazioni offrono ognuna un tipo di approccio completamente diverso al gioco, aumentando il fattore varietà e, con esso, la longevità.
E allora? A cosa è dovuto quel voto sì buono, ma non esattamente entusiasmante?
Per un motivo fondamentale: arriva dopo quel capolavoro di Age of Empires II e il paragone diventa inevitabile, così come inevitabile è la difficoltà di questo terzo capitolo nel reggere il confronto. Le meccaniche sono meno profonde, la semplificazione della microgestione economica limita la creatività strategica rispetto al predecessore, il sistema delle Città Madre obbliga a un grinding che fa perdere di immediatezza al multiplayer, la modalità campagna è narrata in modo meno affascinante e offre una quantità di contenuti decisamente minore.
Insomma, avesse avuto un altro nome avremmo sicuramente trovato più interessante l’offerta di un gioco che, nonostante le buone premesse, continuerà a lasciare spazio nel cuore dei videogiocatori al suo più illustre predecessore. Buono, ma lontano dall’eccellenza.