Ritorno nella cittadina silenziosa
Nel mondo videoludico esistono titoli così profondi e maturi da rimanere impressi nella memoria degli appassionati. Paura, rabbia, dolcezza, amore, sono tutti sentimenti che hanno trovato un’adeguata collocazione nella rappresentazione virtuale. Ma cosa succede se intendessimo spingerci oltre, se ciò che vogliamo rappresentare fosse il male oscuro con tutte le sue macabre sfumature: solitudine, delirio, schizofrenia, la desolazione sollevata dai propri fantasmi interiori e la consapevolezza di non avere alcuna via d’uscita se non la fine del proprio essere.
Stiamo andando forse oltre, verso un livello di rappresentazione che trascende il concetto di videogioco inteso nel suo significato più semplicistico e che affonda le proprie radici altrove.
La saga di Silent Hill rappresenta il più spaventoso tramite tra il mondo videoludico e le paure più nascoste dei giocatori. Stati d’animo come, angoscia, ansia e follia, sono alla base delle storie raccontate dalla saga Konami. Questa cittadina (Silent Hill) corrotta dal male apparve per la prima volta su PSX nel 1999 , regalando un approccio metafisico e psicologico al genere survival horror. Perso nella nebbia, il protagonista si trovava intrappolato in una città fantasma,corrotta dal male, senza uscite nè entrate. Nel disperato tentativo di trovare la figlia scomparsa, doveva scampare alle minacce di mostri orripilanti, allucinazioni e incubi che prendevano vita davanti ai suoi occhi. Il punto di forza dei primi due storici capitoli risiedeva nella capacità di saper spaventare all’improvviso e di spiazzare con colpi di scena inaspettati. Era difficile capire se ciò che il protagonista stava vivendo fosse un sogno, un’illusione o la realtà. Durante la partita il suono improvviso di una sirena (elemento distintivo della serie) anticipava il progressivo deterioramento degli ambienti di gioco, che si riempivano di ruggine, sangue e cadaveri smembrati. La normalità non aveva più logica nell’avventura. La perdita di ogni certezza, speranza e coscienza del bene o del male rappresentano la principale chiave di lettura di Silent Hill. La saga Konami in effetti, non è adatta a tutti, e non solo per la violenza delle scene ma soprattutto per le tematiche: la follia interiore, il progressivo distacco dalla realtà, la pratica della magia nera e la cieca dedizione a misteriosi culti religiosi impressionano facilmente.
Ma è proprio nella sua inquietante atipicità che risiede il successo di Silent Hill. Purtroppo, i capitoli successivi non sono riusciti a trasmettere quelle sensazioni di disagio e tensione costanti che hanno reso celebre il plot, ormai costretto a reinventarsi. Affidandosi al team americano Double Helix, Konami presenta il quinto capitolo, sottotitolato, non a caso, “Homecoming” (Ritorno A Casa). Ed è proprio il ritorno alle origini l’obiettivo principale dei programmatori; infondere nuova linfa alla saga, da troppo tempo rimasta ancorata a meccaniche ormai superate, ma allo stesso tempo recuperare il meglio dell’eredità lasciata dai capitoli precedenti.
Viaggio nell’incubo
Protagonista della storia è Alex Shepherd, ex militare che fa ritorno a Shepherd’s Glen, (sua città natale), a causa di alcuni incubi riguardanti suo fratello Joshua. Giunto a casa, Alex trova edifici abbandonati, strade deserte e una fitta nebbia grigia che cela misteri e orrende creature infernali. Sua madre, in stato catatonico, gli rivela che Josh è scomparso e che suo padre è andato a cercarlo. Inizia cosi la discesa di Alex verso un inferno fatto di “ruggine”, sangue e follia che lo portano, passo dopo passo, dentro una spirale di misteri, dolore e morte.
La sceneggiatura risulta ben tratteggiata e ed accompagna il giocatore durante un percorso caratterizzato da dubbi e rivelazioni shock. Inoltre, la presenza di cinque finali, diversi a seconda delle scelte compiute durante la partita, risultano essere un ulteriore rinforzo nella conoscenza di tutti i dettagli della trama. Il personaggio di Alex è forse uno tra i meglio riusciti dell’intera saga: il protagonista viene sin dall’inizio scaraventato bruscamente nella follia più estrema. La realtà è solo un miraggio mentre gli incubi trasfigurano l’ambiente intorno a lui.
Le stesse creature, che strisciano nella nebbia in cerca di sangue, non sono altro che la materializzazione di quelle paure e di quella follia che albergano nella mente di chi ha subito il dolore a tal punto da sfruttarlo per cambiare la realtà delle cose.
Anche se determinato nella sua ricerca della verità sulla sua famiglia e sul Male che sta inghiottendo la città, Alex è in parte cosciente che il viaggio che sta intraprendendo non porterà solo a Josh ma anche alle verità sul proprio passato. Il resto del “cast” , come da tradizione, include personaggi misteriosi e ambigui. Alex può fidarsi solo di se stesso.
Alcune cutscenes evidenziano momenti di pathos e tensione cinematografica che fanno della trama di “Homecoming” una tra le migliori della saga.
Le tinte del terrore
Il comparto tecnico di “Homecoming” convince, ma non fino in fondo. Da una parte abbiamo l’ottima resa dei mostri e delle texture che ricoprono i modelli poligonali di quest’ ultimi: le creature sembrano uscite dal peggiore degli incubi e fanno accapponare la pelle mentre avanzano verso il protagonista. Anche il modello di Alex è ottimamente realizzato, fluido e realistico nei movimenti. Lodevole il sistema di illuminazione e di gestione delle ombre: vedere Alex esplorare gli ambienti quasi bui con la torcia elettrica è una vera gioia per gli occhi.
Lo stesso vale per l’effetto del passaggio, sempre realizzato in tempo reale, dalla dimensione terrena a quella infernale; l’ambiente circostante si degrada e si riempie di sangue e ruggine, avvisando il giocatore di un tremendo pericolo imminente. Dall’altra parte abbiamo invece le ambientazioni che sono caratterizzate da texture non particolarmente ispirate, molto simili tra loro, sciatte e povere nei dettagli. I modelli poligonali dei personaggi secondari sono stati realizzati in maniera approssimativa e difettano di realismo nei movimenti e nelle espressioni facciali. Inoltre, negli ambienti esterni, il massiccio utilizzo di una palette cromatica di tonalità grigio scuro rabbuia la grafica e copre la maggior parte dei colori, come quelli degli edifici o dei giardini. Irritanti risultano alcuni caricamenti, a volte davvero esagerati, durante il passaggio da un ambiente ad un altro. Infine, la presenza di sporadici bugs e di qualche calo di frame rate confermano l’instabilità del motore grafico. Fortunatamente, questi difetti non danneggiano troppo l’atmosfera che comunque risulta sempre angosciosa e terrificante. Le creature nemiche sono raccapriccianti e l’ambientazione è cosi azzeccata da immergere il giocatore in un “bozzolo” di isolamento, fatto di tensione, paura, ma anche di “rosso” divertimento. Decisamente migliore il comparto audio, capace di trasmettere terrore e angoscia attraverso i suoni prodotti dalle creature ed i rumori ambientali fatti di scricchiolii, urla lontane, e passi nell’oscurità. Davvero eccezionali poi le musiche di Akira Yamaoka, che si conferma uno dei più prolifici e geniali compositori videoludici.
Il mestiere del soldato
La vera novità di questo quinto capitolo è il gameplay. Alex è un soldato, perciò è agile nei movimenti e nelle azioni. Inoltre, è abile nell’arte del combattimento all’arma bianca e da fuoco: può maneggiare coltelli e fucili d’assalto con estrema facilità. Il sistema di combattimento con le armi bianche prevede combo ed esecuzioni speciali tramite l’utilizzo di tre comandi; uno per infliggere un colpo lento ma potente, l’altro per un colpo leggero ma più agile, ed uno per schivare i colpi nemici. Questi ultimi sono però agili e a tratti ostici, perciò bisogna studiare la giusta strategia di contrattacco per avere la meglio nei combattimenti. Il sistema di puntamento funziona molto bene; durante una sparatoria, si mira con un tasto e si spara con l’altro, avendo anche la possibilità di muoversi nello stesso tempo. Le armi da fuoco sono potenti ma le munizioni scarseggiano, perciò la fuga o gli scontri con un coltello o un’ascia si rivelano le scelte più sagge. Non esistendo la possibilità di una “girata” di 180° i movimenti del protagonista risultano piuttosto macchinosi, specie nelle fasi più concitate. La risposta ai comandi non è sempre immediata e ciò diventa causa, non di rado, di parecchie ferite durante un combattimento o una fuga dalle creature che rincorrono Alex. Nonostante questo è doveroso evidenziare che lo “svantaggio” di Alex rispetto ai nemici aumenta da un lato la strategia per affrontarli, dall’altro la tensione, indispensabile per un survival horror. La longevità si mantiene su buoni livelli. Alcuni ambienti sono vasti e ricchi di segreti. La possibilità di sbloccare tanti costumi, armi extra e finali alternativi, spingono il giocatore a trascorrere parecchie ore in compagnia del nuovo titolo targato Konami, regalando divertimento e brividi dietro la schiena.
Concludendo…
“Silent Hill Homecoming” riesce, solo in parte, a mantenere le promesse. L’atmosfera terrificante e il design delle creature riescono davvero ad incutere terrore. Le scelte stilistiche e narrative sono forti e non adatte a un pubblico sensibile. Inoltre richiamano alla memoria non solo i migliori momenti della saga, ma anche il film del 2006, diretto da Christofer Guns. Il nuovo gameplay, inedito per la saga, riesce a entusiasmare parecchio. Tuttavia, le fastidiose magagne tecniche e un comparto grafico sotto gli standard non fanno di “Homecoming” il miglior Silent Hill di sempre. Ma questo capitolo senza dubbio rappresenta un buon inizio per costruire nuove fondamenta del terrore psicologico, un terrore che solo la collina silenziosa e i suoi misteri, celati dalla nebbia, possono trasmettere agli appassionati dei survival horror, che troveranno in “Homecoming” parecchio pane per i loro denti.
Marco “Seth” Delle Fave