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Parliamoci chiaramente, sin da subito: nel mondo dei videogame tutto è permesso. Far uscire giochi in stati pietosi seppur nei mesi precedenti siano stati ultra-pompati da milioni di dollari di campagne marketing. Creare cloni senz’anima di giochi famosissimi e spacciarli per rivoluzionari. Inserire nei giochi delle orribili meccaniche al limitare del gioco d’azzardo, con richieste di denari che toccano quota decine di migliaia d’euro e far finta di niente. Giornalisti videoludici proni e più vicini ad esser ragazze immagine al soldo delle aziende, che veri e propri “critici”. D’altronde, l’industria videoludica è una autentica contraddizione: una sorta di Far West brutale e senza regole, imbellettato per somigliare ad un orsetto coccoloso. Ma perché tutto è permesso? Semplicemente, perché dei videogame non frega un cazzo a nessuno, se non ai bambini che ci spendono montagne di soldi e che “apprendono” da loro, più che da libri e documentari (eh si, miei cari genitori, funziona proprio così). Ah, ovviamente: c’è anche qualche sano appassionato. Ma è una risibile minoranza.

Una patch a 80 euro?

Introduzione venefica necessaria a parte, ritengo personalmente che quanto fatto con The Last of Us Parte 1 segni un nuovo capitolo (terribile) di svolta nella storia dei videogame: è, difatti, la prima volta che una patch viene venduta al prezzo di un gioco “nuovo”. Un autentico unicum nel cursus dell’industria videoludica, un “basso” notevolissimo e che probabilmente qualcuno avrà anche considerato un “colpo di genio” per continuare a munger soldi da un gran bel gioco uscito però 10 anni fa.

Dunque, la domanda è questa: un revamp grafico notevole e qualche miglioria nell’intelligenza artificiale dei nemici, posson esser venduti a 80 euro?

La risposta sarebbe no in un mondo ideale, ma de facto a nessuno importa più di tanto visto che, comunque vada, viviamo nel peggiore dei mondi possibili (mi scusi Leibniz). Poi, definirlo Remake è a mio avviso un errore abissale: è più una “remakered”, più di una remastered e molto meno di un remake. Perché remake significa “intervenire su tutto e modernizzarlo” e qui non lo si è fatto: ci si è limitati, in modo arbitrario, ad aggiunger volpescamente quella parola nel titolo del gioco, per trasferire un’idea che, come tenterò di dimostrare più avanti, è sin troppo velleitariamente adoperata.

Partiamo da qualche dato intellettualmente confortante: nei primi giorni di lancio, la “Remakered” di The Last of Us Parte 1 ha venduto davvero poco in Gran Bretagna, uno dei mercati di punta europei. Siamo a circa metà delle copie fisiche che ha macinato Saints Row, un reboot che non è davvero un reboot, macellato da quasi tutta la critica videoludica “che conta” e considerato, al massimo, un gioco “mediocre”. Dunque, de facto un insuccesso anche solo parziale se lo si correla al fatto che Sony e Naughty Dog, visto il prezzo previsto, lo considerassero un “blockbuster tappabuchi” alla stregua di un gioco “nuovo” da inserire in un periodo di magra totale di giochi d’eccellenza. Un dato, come detto, confortante perché per una volta, pare, le persone non si siano fatte “fregare” completamente. Nonostante i tanti pennivendoli clowneschi che hanno l’ardire di definirsi giornalisti, le abbiano provate tutte o quasi per far passare la “Remakered” come un gioco nuovo arrivando addirittura, come nel caso di un noto sito di pseudo informazione videoludica, a “prender per culo” chi si lamentava della becera operazione di mercato a cui aveva appioppato un bel 9.

Quindi, sviluppatori, aprite le orecchie: per prendere un nove pieno, basta semplicemente cambiare motore grafico e migliorare l’aspetto estetico di giochi “vecchi”. Capito?

Il senso della “Remakered”? Una mossa probabilmente dettata anche dall’enorme potere che Microsoft, tra acquisizioni gargantuesche e Game Pass “esplosivo”, ha ottenuto nell’ultimo paio d’anni: recuperare qualcosa spendendo un “grosso nome” ed investendo relativamente poco. Detto ciò, l’insuccesso diviene comunque un “botto” notevole, se si considerano alcuni fattori: il gioco è rimasto, nella “polpa”, identico a quello di 10 anni fa. Non una stanza in più, non un dialogo in più, non un nemico in più: tra la versione PS3 del 2013 e quella attuale, da questo punto di vista, non v’è nessuna differenza. E, nella sua essenza di renovatio tecnica, il “Remakered” è un grande passo avanti rispetto alla versione del 2013, ma si assesta a livelli pressoché uguali se non marginalmente superiori a The Last of Us Parte II. Nonostante vi sia stato uno switch di motore grafico (urlato ai quattro venti e vero “point seller” dell’operazione), le differenze tra la “Remakered” e il secondo capitolo sono quasi impercettibili.

Livello di dettaglio paragonabile, ma anche la User interface, alcune modificazioni tecniche interne (come il segmento crafting) e persino alcune delle movenze “migliorate” dei nemici (seppur, sembra che l’intelligenza artificiale dei nemici sia un pochino più “aguzza” nella “Remakered”) e di alcune delle animazioni, sono una diretta “citazione” (alle volte marginalmente evolutasi, alle volte “importata” a piè pari) dal secondo capitolo. Nulla di straordinario, ogni gioco “apprende” dal precedente nel tentativo di migliorarsi: ma qui si parla di un prodotto venduto a prezzo pieno, come se fosse nuovo, e celebrato come un capolavoro tecnico ed un must buy a 10 anni di distanza. Riassumendo: zero contenuti “intellettuali” nuovi, un revamp tecnico e meccanico di spicco rispetto al 2013, non che ci volesse molto, che diviene però piuttosto marginale se confrontato con il secondo capitolo della saga uscito due anni fa (ed è facilissimo notarlo in un normalissimo video comparativo).

La situazione diviene ancor più drammatica, se si confronta la “Remakered” con altre operazioni piuttosto recenti nell’ambito del remaking. I casi di Resident Evil 2 e Final Fantasy VII, sono stati già citati: giochi “antichi”, traslati con una grafica top tier e moderna e pesantemente modificati nella loro essenza meccanico-ludica, con addirittura alcune implementazioni aggiuntive a livello di trama e gameplay, rispetto alle controparti originali. Una rivoluzione? No, un remake: “rifare” qualcosa da capo non significa solamente truccarla meglio, ma rifondarla del tutto, da capo a piè, per offrire un’esperienza moderna e diversa rispetto al passato. Ma se i due giochi citati in alto, usciti rispettivamente nel ‘98 e nel ‘97, aveva senso riproporli in versione “riveduta, corretta ed ampliata”, che senso ha riproporre una versione tecnicamente migliorata di un gioco uscito soli 10 anni fa, tra l’altro con di già una remastered dello stesso disponibile da qualche anno? Nessuno, ma solo quello di spillare quanti più soldi possibile agli incauti (magari, tratti in “inganno” dagli annunci roboanti e dalle pubblicità travestite da notizie dei sitarelli pagliacceschi del settore).

Ma, a questi esempi ultra noti, vorrei aggiungerne uno forse più calzante e meno conosciuto: quello di Rust, un titolo-rivoluzione uscito su Steam nel 2013 e uno dei primissimi “survival compiuti” della scena videoludica. Ebbene, lo studio di sviluppo del gioco, Facepunch, all’epoca poco più di una software house indipendente e con risorse piuttosto limitate, a circa un anno dall’uscita in Early Access, compì un “improvviso” switch di motore grafico, creando una versione “sperimentale” del gioco che utilizzava Unity 5. Un cambio di peso, soprattutto se si tengono a mente le risorse relativamente limitate di un studio all’epoca giovanissimo e nonostante il “boom” di vendite di Rust. Un cambio che, nella fattispecie, rivoluzionò in modo abissale non solo l’estetica del gioco, ma anche grandemente il gameplay, le meccaniche intrinseche ecc. Ebbene, questa “rivoluzione”, come venne introdotta? Facendo ripagare il prezzo pieno del gioco? Facendone pagare la metà? Un terzo? Ovviamente no. Semplicemente, con una patch ordinaria e la messa online di una build sperimentale, divenuta poi il “fulcro” centrale del gioco, scaricabile in modo gratuito semplicemente “accendendo” Steam. Ora, assimilate quanto narratovi su Rust e confrontatelo con il “modus operandi” dei “giganti” dietro la “Remakered”: visto il nesso? Vista l’apocalisse?

Concludendo…

Perciò, da giocatore e fan della saga di The Last of Us, sono tante le domande che mi assalgono: non sarebbe stato meglio indirizzare lavoro e risorse verso un nuovo capitolo? Non sarebbe stato meglio tralasciare le lusinghe di un’operazione commerciale semplice e, comunque vada, redditizia ma “moralmente” non al top? Non sarebbe stato meglio, eventualmente, proporre la “Remakered” ad un terzo del prezzo proposto? I soldi sono davvero tutto? I giocatori sono soltanto “portafogli ambulanti”?

Domande che, pare, non sono stato il solo a porre e che hanno avuto, almeno parzialmente, un influsso significativo sulle vendite. Vendite che, alla fine, sono l’unica verità assoluta nella moderna industria videoludica: e quando un’operazione da “zero sforzi” o quasi come questa della “Remakered” vende anche solo una manciata di copie, ebbene… l’industria ha avuto, nuovamente, ragione.

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