Per tutto il tempo che ho passato a giocare a The Banner Saga, non ho potuto fare a meno di chiedermi, di continuo, come sarebbe potuto essere l’interessante strategico a turni di Stoic se la loro campagna su Kickstarter si fosse conclusa con una cifra più o meno imponente di quella effettiva. Non mi si fraintenda, 700.000 dollari sono già tantissimi, ben sette volte la cifra chiesta inizialmente dal team; ma ciò non mi ha comunque impedito di immaginare cosa avrebbero potuto realizzare quei tre veterani provenienti direttamente da BioWare con il doppio, o magari il triplo dei fondi. Da una parte, credo che possiamo ritenerci già molto fortunati per ciò che ci ritroviamo per le mani. Dall’altra, per contro, ad ogni minuto di gioco, imbevuto di crescente soddisfazione da parte mia, non ho potuto fare a meno di percepire un forte senso di incompletezza. Perché?
Brace yourself
Al primo sguardo, The Banner Saga ha il tipico sapore dei giochi di ruolo di una volta. Il mondo bidimensionale, i tempi distesi e rassegnati, la profondità dei personaggi: tutto concorre a ricreare un’atmosfera che pare appartenere più ad un paio di decadi fa, piuttosto che alla generazione ludica attuale. La storia vi vedrà dapprima rifuggire e poi fronteggiare una stirpe mostruosa e inquietante, conosciuta col nome di Dredge, che minaccia di dare nuovamente inizio ad una guerra che sembrava essere ormai solo un ricordo lontano. Benché l’incipit non sia esattamente dei più originali (quanti eserciti mostruosi abbiamo rispedito al mittente negli ultimi dieci anni?), The Banner Saga, forte del suo retaggio vichingo e del suo aspetto nostalgico da film Disney, sa certamente come catturare l’attenzione fin dai primissimi istanti di gioco. Giocherete, in alternanza, dalla prospettiva di due differenti popolazioni: da un lato i Varl, fieri e immortali giganti cornuti; dall’altro gli uomini, creature più vulnerabili, ma anche più pretenziose.
Non è però un mondo granitico, quello che ci viene offerto dagli sviluppatori. I dialoghi, rappresentati con scene semi-statiche splendidamente disegnate a mano, mettono subito a proprio agio chi è cresciuto a pane e Baldur’s Gate (o Dragon Age, per i meno stagionati): è possibile scegliere tra più risposte, e l’approccio che decideremo di adottare con i nostri interlocutori potrà avere un impatto più o meno importante sull’evoluzione della trama. Freni l’entusiasmo però chi si aspettava un’evoluzione dinamica degli eventi come in The Witcher: il gioco segue uno sviluppo della trama molto lineare, e benché i finali siano multipli, raramente verrete messi davanti a veri e propri bivi.
Dopo i primi, lunghi scambi di battute, The Banner Saga si rivela per ciò che è realmente, a dispetto della propria ‘maschera’ da GDR: come chi ha già seguito (o addirittura finanziato) il progetto saprà già, il titolo di Stoic è uno strategico a turni, con tanto di visuale isometrica e griglia da battaglia à la Dungeons & Dragons. Passerete su quella griglia probabilmente la metà delle 10-12 ore richieste per completare il gioco, dato che tenderete ad incontrare i Dredge con una certa frequenza.
L’altra metà del tempo, quando non sarete occupati con i dialoghi, la passerete in viaggio. The Banner Saga racconta una storia ‘nomade’, di popoli vichinghi in cerca di salvezza, spinti via dalle proprie case dall’ombra della guerra. Sono innumerevoli, perciò, i momenti che passerete a osservare la vostra chilometrica carovana muoversi tra gli splendidi paesaggi realizzati dagli sviluppatori. Nel concreto, queste sezioni sono le più lineari (benché la mappa di gioco sia enorme, infatti, non potrete mai decidere dove andare), ma è anche vero che in termini estetici rubano letteralmente la scena ad ogni altra cosa che il gioco ha da offrire – e basta dare un’occhiata agli screenshot per capire di cosa sto parlando. Di tanto in tanto capiterà qualche imprevisto durante il viaggio – imboscate, ubriachezza molesta, dissensi tra i vostri uomini. Potrete ovviamente scegliere come comportarvi, e ciò potrebbe avere un peso più o meno importante sull’economia di gioco.
Saltuariamente avrete l’occasione accamparvi per rivedere il vostro equipaggiamento, parlare con altri personaggi, avanzare di livello o, nel caso ci siano dei mercanti nei paraggi, fare provviste per il viaggio. La buona gestione delle risorse e del morale della carovana è fondamentale se si desidera facilitarsi la vita nei momenti decisivi della storia; occorrerà perciò saper decidere quando accamparsi per ridare fiato al proprio esercito, cercando però al contempo di non sprecare le rare e preziose razioni da viaggio – pena, la morte di fame di parte del proprio seguito.
La maggior parte di queste decisioni la prenderete per via testuale, piuttosto che attraverso un’interfaccia apposita: un po’ come avverrebbe in una partita a D&D, ‘la narrazione’ vi informa degli avvenimenti, fornendovi risposte multiple per decidere sul da farsi. Purtroppo, l’esito delle scelte possibili non è sempre reso in maniera chiarissima, per cui a volte mi è capitato di fare la figura del mollaccione solo perché non volevo fare tutti a fettine. Inoltre, considerando che il gioco è interamente in inglese, la faccenda può complicarsi per chi non mastica perfettamente la lingua d’oltremanica – la mole di testo è notevole, e il doppiaggio si riduce a una manciata di battute in tutto.
Dredge alla griglia
Il viaggio, i dialoghi e la gestione della carovana sono certamente momenti importanti dell’esperienza offerta da The Banner Saga; ma, come già accennato, l’anima e la sostanza del titolo di Stoic risiedono nelle fasi di combattimento. Si è già detto che le mischie contro i temibili Dredge si svolgono su delle griglie, simili a scacchieri, con visuale isometrica; a turno, giocatore e nemico muovono i propri personaggi, posizionandoli sul campo di battaglia e sfruttando le abilità e gli oggetti a disposizione per aver ragione del proprio avversario.
Un po’ come in un gioco di ruolo, i personaggi sotto il vostro controllo differiranno nelle caratteristiche e nelle abilità; le classi sono moltissime, e ciascuna ricopre un ruolo specifico quando c’è da gettarsi in mischia. Il cuore delle meccaniche risiede tuttavia in due valori fondamentali: armatura e forza. La prima, com’è facile intendere, protegge i personaggi (alleati o nemici che siano) dagli attacchi fisici; la seconda rappresenta tanto il valore offensivo di un combattente quanto il suo stato di salute. Ciò comporta, intuitivamente, che più tempo un personaggio passerà a farsele dare di santa ragione, minore sarà la sua efficacia in battaglia, con tutte le variabili tattiche che ne conseguono. Lo stile di combattimento vincente da adottare in The Banner Saga è perciò di natura conservativa: la difesa conta tanto quanto l’attacco, per cui è impossibile puntare tutte le proprie risorse sull’aggressività.
A questi due valori si aggiungono dei particolari punti spendibili, chiamati Willpower (forza di volontà) che possono essere usati in battaglia per aumentare i danni inflitti, per allungare le distanze coperte o per utilizzare le abilità speciali; alcuni personaggi ne possiedono più di altri, ma in generale ne otterrete uno per ogni nemico mandato all’altro mondo. Grazie a questa semplice meccanica, i tempi di logoramento delle schermaglie vengono dilatati sensibilmente e, cosa più importante, proporzionati alla buona riuscita delle strategie del giocatore. Attraverso questo sistema di ricompense, quindi, il gioco evita brillantemente quelle situazioni paradossali in cui, una volta consumate tutte le risorse a disposizione, si va avanti per inerzia cliccando sul nemico più vicino.
Una volta terminato uno scontro, i personaggi caduti in battaglia tornano tra le nostre file, pur riportando delle ferite: per riaverli in forma dovremo lasciarli riposare per un po’ di giorni, perciò è importante saper alternare gli eroi a disposizione di battaglia in battaglia. Il tempo di recupero di un eroe, così come il numero dei nemici, varia a seconda del livello di difficoltà scelto. “Normale” costituisce già una sfida interessante, anche per i giocatori più esperti; mentre “Difficile” si presenta come soluzione decisamente più estrema: gli scontri sono veramente tosti, e le lunghe convalescenze dei protagonisti vi costringeranno spesso a riorganizzare la vostra squadra; pur aggiungendo una forte dose di realismo all’azione, l’ho trovato fin troppo punitivo – vi piacerebbe finire il gioco utilizzando i personaggi secondari solo perché i protagonisti hanno le ossa fracassate?
In ogni caso, gran parte delle meccaniche funziona in maniera organica, e quasi mai il sistema di gioco appare farraginoso o poco fluido. Più che altro, i veri problemi cominciano a farsi sentire dopo le prime tre, quattro ore di gioco. Anzitutto, i dredge non brillano per varietà: ce ne saranno in tutto poco più di una mezza dozzina e la metà di questi costituisce semplicemente una versione “d’élite” di quelli normali. Inoltre, i campi di battaglia, per quanto variegati esteticamente, non offrono alcuno spunto tattico: sono spogli ripiani su cui è possibile muoversi e attaccare – al più ci sarà qualche ostacolo a frapporsi fra voi e il nemico. In un certo senso, insomma, i combattimenti paiono non avere “un’anima”. Si susseguono fra loro, in un crescendo di difficoltà e brutalità, nel totale anonimato – senza che nulla possa distinguerli dagli altri. Eppure sarebbe bastato poco, mi dico: anche solo donare un obiettivo diverso dall’uccidere tutti avrebbe giovato non poco all’esperienza globale – magari costringendo al salvataggio di un alleato in fin di vita, l’attivazione di un interruttore o il recupero di un oggetto particolare. Certo, posso anche capire il perché gli sviluppatori non abbiano voluto muoversi in quella direzione, volendo concentrare tutto sulla tattica dura e pura; ma col senno di poi, credo si sia rivelata una decisione infelice. Nemmeno la possibilità di spendere i punti guadagnati nell’avanzamento degli eroi disponibili risolleva molto la situazione: il tutto si riduce alla scelta di quali statistiche aumentare, senza neanche troppa possibilità di personalizzazione.
Commento
Nel descrivere il più accuratamente possibile che tipo di gioco The Banner Saga fosse, ho tentato di evidenziarne in maniera chiara i punti di forza e le (poche) evidenti debolezze che il titolo di Stoic si porta dietro. Quello che però queste righe non possono mostrarvi è, giusto per dare un esempio, l’evocativa colonna sonora Austin Wintory; oppure il rassegnato cigolio dei carri che, inesorabili, vengono trainati verso ovest, con la vana speranza di sfuggire per sempre alla guerra. Ciò che è difficile spiegare di questo titolo è, in parole povere, la sua estetica, nel suo senso più ampio: dal ricercato comparto sonoro alla scrittura dei dialoghi, al senso di precarietà trasmesso da quel vessillo, il banner, che svolazza mosso dal vento, mentre chi lo regge, a fatica, avanza senza guardare indietro.
Se la domanda è “poteva essere ancora meglio?” allora la mia risposta è sì, poteva esserlo. Forse un paio di milioni in più e un team più grande avrebbe salvato The Banner Saga da una ripetitività di fondo che si fa sentire un po’ troppo in fretta. Ma allo stesso tempo, mi chiedo: se così fosse stato; se The Banner Saga fosse stato un progetto più ampio, più ricco, più corpulento; avrei davvero potuto apprezzarlo più di così?