Esiste una differenza pressoché abissale, per così dire, tra ‘classico’ e ‘obsoleto’. La massificazione del mercato dei giochi di ruolo ha naturalmente portato – per forza di cose – a semplificazioni d’ogni tipo, al fine di rendere il singolo prodotto fruibile dal maggior numero di utenti possibile; basti pensare alla ‘magica’ bussola di Oblivion, oppure alle quest di Mass Effect, che per quanto originali fossero, venivano offerte al giocatore ‘col cucchiaino’. I tentativi di offrire meccaniche ruolistiche classiche (tanto nella narrazione quanto nel gameplay) sono diventati sempre più sparuti e, al tempo stesso, esponenzialmente sempre più fallimentari.
Radon Labs disse la sua con Drakensang, in quel di Aventuria, giusto l’anno scorso. Fu un tentativo pressoché riuscito, dall’aspetto forse non stilisticamente marcato, ma perlomeno abbastanza ‘retro’ da lasciarsi perdonare i difettucci che – disseminati qua e là – lo rendevano più conchiglia che perla, facendo quindi leva sul fattore ‘nostalgia’ dei fan più accaniti e – perché no? – anziani.
Adesso, a distanza di un anno, quasi in sordina, esce Drakensang: The River of Time, atteso prequel del titolo sopracitato, dedito a svelare e raccontare i segreti e i retroscena rimasti celati nel primo capitolo di quella che – con tutta probabilità – diverrà una vera e propria saga.
I** n riva al fiume. **
The River of Time è quanto di più classico si possa trovare nell’ampia pletora di giochi ruolo messi in commercio dal ’90 ad oggi. E non stiamo scherzando, è davvero così. La trama stessa del gioco, naturalmente adattata agli eventi narrati nel primo Drakensang, è infarcita di cliché del genere. Ma andiamo con ordine.
Le vicende esordiscono con il più classico dei quadretti pre-familiari da racconto fantasy: il nostro prode avventuriero, senza passato, né futuro, è passeggero di una nave diretta verso la città di Ferdok, situata in riva al Gran Fiume. Il corso d’acqua, rovinosamente infestato dai Pirati, diviene teatro della nostra prima battaglia, durante la quale avremo occasione di conoscere tre misteriosi individui (ai quali combatteremo fianco a fianco). Un po’ per spirito goliardico, un po’ per amore verso il prossimo, i tre individui suddetti ci vorranno come compagni di viaggio, chiedendoci di indagare sui misteriosi e frequenti attacchi pirata che si verificano lungo le rive del fiume. E, naturalmente, il nostro eroe accetterà senza farsi troppe domande.
È una delle tante forzature narrative, questa, a cui dovremo abituarci se vorremo giocare a Drakensang: The River of Time. Purtroppo la trama non è tra i punti forti del gioco, e per quanto sia colma di buone idee, risulta per lo più abbozzata o raccontata con eccessiva parsimonia. I ritmi sono lenti, gli elementi della main quest svelati col contagocce, e i personaggi ben poco approfonditi. I dialoghi, a volte scontati, altre un po’ forzati, sono tutt’altro che verosimili, e spesso trasudano ingenuità e puerilità, con battute che talvolta riescono addirittura a suscitare il riso, e di certo non per volontà degli sceneggiatori. È un vero peccato, perché nonostante una situazione iniziale di certo non esaltante, Drakensang: The River of Time è ricco di dettagli e varietà, anche grazie a piacevoli cutscene che narrano gli eventi di maggiore rilevanza.
L’ambientazione, già nota a chi ha giocato il precedente capitolo della storia, è quella canonica dei regni fantasy; tanto classica da risultare persino piatta, a tratti.
L’esperienza vien lottando.** **
La primissima fase di gioco, naturalmente, prevede la creazione del nostro alter ego: è possibile definirne aspetto, razza e professione; sono disponibili, come modelli base, ben 22 archetipi di personaggi, distinti fra di essi attraverso le varie possibili combinazioni di classe/razza/sesso. Il numero di classi è piuttosto vasto, e condito tra l’altro da qualche novità interessante (come l’amazzone o il pirata); ma ben presto ci si rende conto che le differenze tra una professione e l’altra non sono poi così determinanti, almeno in termini di gameplay. Infatti, a dispetto della decisione che avremo preso a inizio partita, ci sarà consentito personalizzare il nostro beniamino piuttosto liberamente, e a meno ché non avremo scelto una classe ‘magica’ piuttosto che una ‘guerriera’ difficilmente le nostre abilità saranno tanto differenti da quelle delle altre classi.
Più interessante, invece, è il differenziarsi delle quest in rapporto al personaggio scelto: ogni classe, infatti, avrà i propri obiettivi di partenza, che naturalmente (e inevitabilmente) dopo le prime fasi di gioco confluiranno tutti verso la trama principale. Per il resto, di rado al giocatore sarà consentito influire sulle vicende narrate, che si dipaneranno in modo del tutto lineare e in piena disarmonia con gli spunti iniziali, che sembravano anteporre la rigiocabilità alla longevità stessa.
Lo sviluppo delle skill (qui denominati Talenti) segue lo schema classico già adottato in Drakensang, che, riassumiamo, si incentra sul guadagno di “punti avventura” e “punti esperienza”. I punti esperienza, come da tradizione, sono fondamentali per progredire di livello; essi sono però affiancati dai suddetti punti avventura, ottenibili nel medesimo modo, ma in quantità più ristrette: possono essere usati per migliorare i valori numerici che determinano la potenza del nostro personaggio, o essere spesi presso alcuni istruttori, grazie ai quali apprenderemo nuovi tipi di abilità (come l’uso dello scudo, attacchi più potenti e così via). Purtroppo, la volontà da parte di Radon Labs di offrire uno schema quasi del tutto ‘classico’ ha portato a scelte di sviluppo più o meno infelici: le abilità che potremo infatti coltivare saranno per lo più passive, e non faranno altro che incrementare i parametri di attacco e di difesa in determinati aspetti del combattimento (come l’uso delle armi a distanza, corpo a corpo, ecc.); tutto ciò a scapito della dinamicità di gioco, che troppo spesso si riduce a semplice attesa della fine della battaglia, senza che l’intervento del giocatore si riveli davvero determinante (se non nelle fasi più concitate). La stessa varietà dei nemici, apparentemente buona, non influisce realmente sulle meccaniche di gioco. Ciò declassa, in certe fasi, il giocatore a puro spettatore, costretto semplicemente ad osservare il modo in cui i membri del party eseguono le istruzioni loro impartite (vai qui, cura Tizio, attacca Caio).
Ma non è di certo l’impostazione classica a privare di mordente lo sviluppo del personaggio; non a caso, abbiamo aspramente rimpianto Baldur’s Gate e Planescape mentre giocavamo a The River of Time . È piuttosto a causa del design dei nemici e degli incontri stessi, che l’ultima fatica di Radon Labs rischia di diventare terribilmente noiosa: unisce a uno schema classico meccaniche obsolete. Parimenti, anche l’uso delle abilità attive si rivela ben presto uno specchietto per le allodole: il massimo che otterrete sarà l’incremento dei danni.
Hey, around and around he goes…** **
La vera mela marcia di The River Of Time, però, non sta né nella narrazione né tantomeno nell’albero delle abilità; piuttosto, risiede nei ritmi stessi di gioco. Sia gli eventi, che le abilità del nostro alterego, che le quest, seguono meccaniche molto lente, specialmente durante le prime 5-10 ore. Spesso, l’80% del tempo che spenderemo per completare una missione lo impiegheremo per spostarci dal punto A al punto B (del tutto indisturbati, tra l’altro): giunti a destinazione, generalmente dovremo fare piazza pulita dei nemici presenti, e avremo completato l’obiettivo. Reo anche e soprattutto di una ripetitività di fondo, The River of Time non convince affatto in quasi nessuna occasione, durante le quest. Non per niente, lo scoglio principale risulta essere proprio la prima metà del gioco, durante la quale saremo costretti ad “abituarci” ai ritmi di Radon Labs, andando tranquillamente avanti e indietro per le aree di gioco, attraversandole più e più volte per motivi diversi. Fortunatamente, gli sviluppatori hanno introdotto un comodo sistema di viaggio rapido, grazie al quale potremo raggiungere velocemente le aree localmente visibili nella minimappa. E, a proposito di mappatura, è curioso notare come questa risulti infinitamente precisa in certi casi, e inspiegabilmente inutile in altri: infatti, non si sa perché, certe quest non vengono né segnate sulla mappa, né tanto meno sul diario! Fortunatamente, è possibile aggiungere piccole annotazioni sulla minimappa, in modo da sopperire alle mancanze del Log delle quest.
Purtroppo, la situazione non cambia molto neanche dal punto di vista estetico, a fronte di un’ambientazione già di per sé poco suggestiva, oltre che scarnamente rappresentata: il design grafico è minimalista, ripetitivo, e poco vario persino nella palette dei colori.
Fortunatamente, a donare un po’ di vivacità e di varietà al gioco ci sono un discreto numero di oggetti (anche cianfrusaglie inutili) e di strumenti utili per la creazione di unguenti, pozioni o archi; l’abilità “botanica” (che consigliamo vivamente a chiunque voglia donare un po’ di pepe all’esplorazione degli esterni), in particolare, permette di interagire con piante e fiori di ogni genere, normalmente privi di una qualche utilità.
Grafica e sonoro** **
Il motore di Drakensang ha fatto passi da gigante rispetto alla sua versione precedente, e offre una gran quantità di ottime texture e di modelli poligonali ben realizzati. L’illuminazione soffre ancora qualche problema, ed è vittima di alcune ingenuità che ne minano notevolmente la qualità (ad esempio, spesso l’ombra proiettata dal nostro personaggio punta verso le fonti luminose, anziché in direzione opposta ad esse). Il vero problema però, come già detto, risiede nella realizzazione artistica del mondo di Aventuria: le città sono spoglie, e gli unici oggetti che ne riempiono le strade sono barili e casse di legno; fortunatamente le foreste sono sensibilmente meglio realizzate, anche se prive della varietà di Risen o del realismo di Oblivion .
La colonna sonora, al contrario, seppur non eccessivamente evocativa, si attesta su livelli apprezzabili, con tracce varie e piacevoli. Il doppiaggio, allo stesso modo, non raggiunge vette da oscar, ma riesce a dare un minimo di pathos a dialoghi che, tutto sommato, ne sono invece del tutto privi.
Conclusioni** **
La linea di demarcazione che divide il classico dall’obsoleto è molto sottile in The River of Time, se non del tutto impercettibile, in alcune occasioni. Drakensang si propone come rivendicatore delle vecchie tradizioni, ma è paragonabile al proverbiale gatto che si morde la coda: più si avvicina al proprio obiettivo più gira intorno a se stesso. È un Gdr per palati affamati, ma di certo non fini: è ricco di quest, di personaggi, di oggetti e di ore di gioco; ma raramente raggiunge picchi d’eccellenza. Allo stesso modo, la mancata attenzione occorsa nel bilanciamento (e nella caratterizzazione) delle singole classi rischia di uccidere senza requie tutti gli ottimi spunti di rigiocabilità offerti da Radon Labs. Per fortuna, la longevità si attesta già di per sé su livelli più che apprezzabili: si parla di 30 ore di gioco per la main quest, più un’altra decina per le missioni secondarie. Drakensang: The River of Time non è un brutto gioco di ruolo, ma raramente risulterà memorabile; allo stesso modo, non vi coinvolgerà a tal punto da farvi sentire ‘nelle scarpe’ del vostro protagonista, almeno non più di quanto ci riuscirebbe un MMORPG. Tuttavia, la struttura di gioco tradizionalista potrebbe essere una prospettiva allettante per più di un veterano, e altrettanto intrigante per un neofita. Tra l’altro, considerando il prezzo a cui è venduto (19,90 ‘