Premessa 1: ognuno, coi propri soldi, può far quel che vuole finché rispetta la legge e il buon senso.

Premessa 2: in uno stato (pseudo) democratico come quello italiano, se qualcuno fa in pubblico qualcosa, quello stesso qualcosa può e deve suscitare reazioni d’ogni sorta che, naturalmente, sono anch’esse legate al buon senso e alla legge.

Premessa 3: ogni campo dello “scibile” umano può esser “preso e usato” in modo superficiale, oppure approfondito e conosciuto per il suo valore (che, magari, alla fine può non risultare confacente ai propri gusti).

Premessa 3 bis: nel mondo odierno, immersi nel vorticoso vociare tendenzialmente inconcludente dei social, molti si improvvisano influencer (in sostanza, non fare un cazzo tutto il giorno e testimoniarlo con decine di video da vomitare nel web) sperando in facili guadagni spesso esentasse. Nulla più che pubblicità ambulanti che, con delicato savoir-faire, svolazzano leggiadri tra “laiv” e recenZioni di paste, scarpe e calcestruzzi nel giro di pochi giorni, manco fossero una irrealizzabile fusione “carne, sangue e spirito” di Giovanni Rana, Mario Valentino e Renzo Piano. Come se comprendere come si creano impasti, calzature e palazzi, siano robetta da perderci 5 minuti su “Gugòl” o da “tutolial” su “Iutubb”. Ma se lo fai notare, sei semplicemente un hater e un “criticone”: l’importante è apparire esperti, non certi farsi le ossa e ingoiare merda cercando di diventarlo sul serio.

Ed ecco che, una mattina, mi son svegliato e ho detto “Bella ciao!”, ma non nell’accezione partigiana: salutavo d’improvviso la mia voglia di “vivere”. Ho visto Kafkanya, una influencer bellissima, bravissima e simpaticissima, pubblicare gongolante sulla propria pagina Facebook l’inizio di una collaborazione con una nota marca di yogurt, Müller (tra le altre cose, di cui sono piuttosto ghiotto ma non c’entra una mazza, lo so). Collaborazione che, poco dopo, mi è anche apparsa sotto forma di sponsor nella mia home.

Direte voi: che c’è di strano?

Ebbene, la pubblicità, nello specifico, consisteva nell’effettività in una recensione (si fa per dire) di un videogame, Horizon Forbidden West. Direte voi: che c’è di strano, ancora una volta? Diversi brand lontanissimi dall’ambito videoludico, negli ultimi tempi hanno investito anche in modi originali nei videogame, tra server di Minecraft e tornei eSport. Ma qui, però, manca “l’orizzonte”: yogurt? Influencer? Recensioni? Videogame? Qual è la correlazione? Qual è il nesso logico? In che modo una recensione (si fa per dire), potrebbe promuovere la qualità di un prodotto alimentare? Ai posteri l’ardua sentenza (probabilmente, un artificiosissimo escamotage pubblicitario che verrà svelato, magari a tappe, in futuro). Ma, al di là dell’unico reale obiettivo della campagna, ovvero far soldi sfruttando i videogame che non sono più arte ma una via di mezzo tra uno spazioso carro dei vincitori e l’ultimo dei bordelli, dove tutto è permesso e niente è impossibile, esistono le parole, che vanno usate nel modo giusto. Ed esiste una logica nelle cose, che non deve solo obbedire alla matematica correlazione tra le “essenze concettuali” degli argomenti, ma anche aver un po’ di rispetto della “aree semantiche”. Per questo, ci terrei a ricordare sia alla streamer che all’azienda di yogurt, che la parola “recensione” deriva dal latino recensio, che significa esaminare. Esaminare significa scandagliare, snocciolare nel profondo, per sviscerare caratteristiche, qualità pregi e difetti di qualcosa (perché, incredibile!, checché ne dica il marketing la perfezione assoluta non esiste).

E nel breve documento prodotto dalla improbabile “joint venture”, v’è solo una molto basilare (anche a livello grammaticale e sintattico) narrazione di ciò che dovrebbe essere il citato gioco. Zero critica, zero opinione ma solo una struttura semplice sino allo elementarità (in senso strettamente scolastico) e organizzata per essere più una réclame che una vero e proprio articolo di “indagine”. Ma anche per fare operazioni del genere, bisogna esser “autorevoli”: fareste mai riparare la vostra auto dal primo che capita? Vi sottoporreste mai ad una visita medica chiedendo lumi al primo che capita? Comprereste anche solo un pacco di caramelle dal primo che capita? No, ovviamente. Serve un curriculum, una qualche testimonianza di esperienza e autorevolezza, una concreta “prova” di genuina professionalità. E la stessa logica va applicata anche al mondo videoludico, per quanto secondario e “risibile”: perché, per dire recensione, bisogna dire giornalista (freelance o “tesserato” che sia). E un giornalista ha un curriculum inquadrabile dall’esperienza maturata, anch’essa a sua volta irreversibilmente intrecciata con il materiale prodotto, che siano articoli, video, saggi ecc. E, a prim’occhio, scrutando per bene le pagine social della citata streamer, ciò che i miei umili occhini hanno scorto è una bellissima, bravissima e simpaticissima ragazza che appare sponsorizzare tantissime cose e proporsi come “show girl”, protagonista di altrettanti variegati contesti. Aprendo la sua pagina personale su Facebook, per rintracciare contenuti “puri” legati ai videogiochi bisogna “scrollare” un bel po’. Aprendo la sua lista video su Twitch, i video “puri” di gaming soccombono senza storie a quelli in cucina, sulla spiaggia o di semplice “talking” su argomenti comuni. E, quei pochi video integralmente legati ai videogames, in realtà sono semplici riprese di sessioni di gioco, non analisi puntuali e strutturate dei prodotti testati. Dunque, dov’è l’esperienza? Dov’è quella che i latini chiamavano “auctoritas”? Dunque, non v’è chissà che auctoritas, né una concreta disamina argomentata e strutturata del prodotto, tale da poter esser elevata a recensione. Riassumendo: non ci si può improvvisare meccanici, medici o salumieri. Così come, al contempo, non ci si può improvvisare giornalisti di settore (anche se, ahimè, è una pratica adottata ormai da chiunque). La domanda sorge, dunque, spontanea: come dovremmo chiamare questo “mostruoso leviatano”?

Ed invece di provocare moti di protesta e insurrezioni, una delle punte “morali” più basse dell’ambito gaming all’italiana, ha in realtà provocato reazioni che, tendenzialmente, si sono limitate a difendere la streamer: non sia mai che ci si fermi un attimo a riflettere che le “cose” non sono solo oggetti da usare a nostro piacimento, ma anche idee che vanno rispettate o trattate con un minimo di tatto. Per non umiliare chi le crea con fatica, chi le “vive” con fatica, chi ci lavora (ma sul serio) con fatica. E invece no: un altro schiaffo in faccia ad una categoria agonizzante da decadi e fatta di 50enni ridotti a fare i 15enni davanti una cam per due spicci, realtà “editoriali” che si strappano i bulbi oculari e le trombe di Eustachio per vendere qualche spazio pubblicitario, ragazzini e ragazzine che tra boccacce e inquadrature “strategiche” si ergono a “fari di conoscenza”, inseguiti affannosamente e alla cieca con borse traboccanti di “dollaroni” dai reparti marketing. E le domande che restano in gola, amare e spigolose come un mattone, sono tante: i soldi giustificano tutto? Il pressapochismo assoluto è sempre “passabile”, anche in settori non “fondamentali”? E in quanto “non fondamentale”, l’editoria videoludica è davvero solo una voce delle tante sul bilancio delle grandi aziende interessate a farsi pubblicità? E ancora: a chi tenta di fare un mestiere ormai alla stregua di una pessima barzelletta da “baretto”, il giornalista videoludico, cosa resta? Per chi considera i videogame arte e scienza, cosa resta? Rassegnarsi, ancora una volta, a marketing ad cazzum, bellezze in vendita e surrealismo depressivo.

Concludo codesto “lamento” che leggerò io e me medesimo: lunga vita agli yogurt, lunga vita alle influencer bellissime, bravissime e simpaticissime e a morte quei pidocchiosi scribacchini di sciocchezzuole che osano pure inalberarsi se qualcuno, d’emblée una mattina, vede in sé un giornalista di razza e decide di dar fiato alla penna con perentorio cipiglio.

A morte!

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