No, non c’è solo il Coronavirus che purtroppo miete vittime, un po’ per l’alta contagiosità, un po’ perché è stato preso sottogamba, un po’ perché era una «influenza normale», un po’ perché negli anni precedenti si «moriva di più». Ma, in un mondo infinitamente più piccolo, irrealistico nella sua concreta realtà, insignificante nella sua infinita importanza, c’è un altro virus che circola e miete vittime: il terribile “Remakevirus”! Un agente patogeno terribile, in grado di mietere vittime, tante e di tipi diversi. In un mondo di editori innamorati dei propri estratti conto (ma non sono i soli), di produttori che ogni 6 anni parlano di rivoluzioni che, puntalmente ad ogni generazione, sono numerini via via più piccoli che hanno bisogno di marketing sempre più grandi per nascondere che, effettivamente, dalla Magnavox Odyssey non è cambiato assolutamente nulla.
In un mondo di sviluppatori con la schiena colma di cicatrici di frusta e di giocatori divisi in due fazioni, gli irriducibili nostalgici e i ciechi modernisti, che si odiano ma poi il matchmaking li fa giocare assieme su Fortnite, il virus è la genuflessa apologia di un’industria, quella videoludica, schiava dei capitali, incapace di rinnovarsi e che osanna gli stessi figuri che, dopo aver davvero innovato, si sono… arenati mortalmente (questa, è per pochi). Un virus insidioso: se l’obbiettivo è far soldi, se mancano le idee, cosa si può fare? Giustamente, metter a lustro giochi di mille epoche fa, nati in contesti completamente differenti, che hanno già detto tutto e che, probabilmente, non hanno mai detto niente. Giochi re-imbellettati, perché dopo anni a seminar deserto, specialmente nel rendere necessaria e prioritaria una storia, qualsiasi gioco medio/alto del passato, diviene eleggibile per l’ennesimo, tecnologicamente spettacolare remake, necessario come un congelatore al Polo Nord.
Soldi investiti male, che potrebbero esser utilizzati per creare qualcosa di nuovo: nuove storie, nuove idee. Dar spazio a menti fresche, non per forza nuove, allontanando gli sviluppatori (le uniche vittime, schiacciati da un sistema “duo-schiavista” composto da squali-venditori e squali-compratori), dall’industrializzazione ottocentesca delle loro impagabili abilità. Invece di proseguire innanzi, in un davanti ipotetico, magari ingenuo, torniamo indietro, insegnando alle nuove generazioni che «il vecchio era meglio», principalmente perché non si ha più voglia di «fare un nuovo». Il gaming, da nona arte, ora è più un esercizio di stile di chi ha compreso che, innanzitutto, videogiocare è oggi uno strumento di trasmissione del pensiero comune, inscatolato in un loop meccanico dove, se non c’è un apposito item shop su cui bimbi scalpitanti possono tranquillamente spendere i salari decurati dalla crisi dei propri genitori, l’investimento non vale la pena. E per farlo, bastano un fucile d’assalto, una manichea divisione tra bene e male, un paio di tette: il dado è tratto.
E nel mentre fioccano i 90 e passa per giochi che hanno venti anni e più, recensiti da fan boy non in grado di superare una “fase anale” videoludica eterna, gli stessi alimentano il carrozzone estetico che muove il settore, sempre più distante sia dal concetto di giornalismo (inesistente e puro click-war in Italia) sia dal concetto di videogioco e di divertimento. Per questo, ogni qual volta si legge di un remake e si legge del grado elevatissimo di attesa, vero o presunto, un videogiocatore da qualche parte del mondo muore ludicamente. Il rischio è che si arrivi ad un day-zero, dove le nuove idee saranno considerate troppo rischiose di base e un bel remake, magari di un titolo in voga ora, qualsiasi sia la sua reale qualità e offerta ludica, potrebbe divenire l’unico modus agendi possibile. Quindi, com’è vivere al tempo del Remakevirus? Esattamente come venti anni fa, mi dicono.