Le fiamme della rivolta(?)
Dopo un’anticipo di recensione tutt’altro che entusiastico, siamo lieti di annunciarvi che, dopo 26 e passa ore di guerriglia, Homefront: The Revolution è riuscito a ribaltare totalmente i pareri iniziali dimostrandosi un titolo meritevole… Ok, abbiamo scherzato. Sarà per la rimozione repentina della Finkbrau dagli scaffali del Lidl, sarà perché il titolo di Dambuster Studios ci è sembrato disastroso su… bé, quasi tutti i fronti, ma abbiamo veramente “subito” questo Homefront: The Revolution. L’ultimo nato in casa Deep Silver è stato indubbiamente colpito dai rigori di un “development hell” che l’ha visto sballottato di publisher in publisher per ben 4 anni, prima con il fallimento di THQ e il passaggio a Crytek UK, poi con l’acquisto di Deep Silver a seguito della bancarotta dello studio britannico. Un percorso difficile, che ha costretto il gioco ad un’incubazione prolungata e problematica, culminata in una corsa al lancio che, probabilmente, non ha permesso ai ragazzi di Dambuster Studios di “smussare gli spigoli” di un prodotto già intrinsecamente carente.Ma andiamo con ordine.
Rivoluzione muta
Homefront: The Revolution ci presenta un futuro distopico, frutto di una linea temporale alternativa nella quale il boom tecnologico degli anni ’70 non è avvenuto nella Silicon Valley americana ma in Corea del Nord, alimentata dalle grandi innovazioni tecnologiche partorite dall’APEX corporation, una mega-compagnia presentata come una sorta di Apple dagli occhi a mandorla. In seguito al totale collasso dell’economia americana – del tutto comprensibile considerando i 16 anni di guerra promossi dai plurieletti presidenti Bush e McCain – l’America si ritrova con debiti insostenibili nei confronti della comunità internazionale, e la Corea decide così di staccarle letteralmente “la spina”, disattivando in remoto tutta la tecnologia venduta e mai pagata. Il brusco ritorno al medioevo mette in ginocchio il paese e, con istituzioni ed economia inesistenti, non c’è nulla in grado di fermare l’invasione “umanitaria” del KPA, l’esercito coreano. Tra le rovine di una Philadephia completamente assoggettata al controllo militarizzato della Corea, il giocatore si ritroverà catapultato nei panni di Ethan Brady, recluta del movimento di resistenza fondato da Benjamin “la voce della libertà” Walker, nonché uno dei protagonisti meno interessanti della recente storia videoludica. Sebbene il pretesto narrativo di Dambuster Studios riesca nel compito di creare una cornice piuttosto interessante per la storia del gioco, l’inconsistenza e il perpetuo mutismo del personaggio principale infligge un primo, durissimo, colpo al coinvolgimento del giocatore nelle vicende narrate. Si tratta di una scelta “stilistica” che può anche funzionare in titoli caratterizzati da dialoghi a scelta multipla (come gdr e affini) ma che risulta totalmente inadeguata nel contesto generale di questo Homefront: The Revolution. Il costante mutismo del protagonista passa spesso da scocciante ad apertamente insensato, visto che tutti i personaggi si ostineranno a rivolgervi domande dirette senza che voi possiate – purtroppo – emettere alcun fonema in risposta. In una scena, ad esempio, un membro della resistenza minaccerà di tagliarvi via appendici irrinunciabili dopo avervi scambiato per una spia coreana e… niente, ve ne starete lì, silenziosi come foratini, in attesa della “scorciatina”. È perfettamente comprensibile come una scelta di questo genere possa far risparmiare non pochi talleri ad uno sviluppatore\publisher con budget non esattamente stellari ma, con una sceneggiatura che mette continuamente in evidenzia i limiti dialogici del protagonista, è chiaro che la caduta nel ridicolo è sempre dietro l’angolo. Un altro brutto colpo al coinvolgimento viene inflitto dall’assenza di un vero e proprio antagonista, inteso come un individuo, preferibilmente carismatico e sfaccettato, che rappresenti il “traguardo” da raggiungere e, contestualmente, da abbattere per salvare la giornata e raggiungere l’agognato “e vissero felici e contenti”. Nessuno si aspetta che ogni gioco abbia il suo Vaas Montenegro (se non sapete chi sia, vi condanniamo a 3 pater noster e all’acquisto di Far Cry 3), ma in Homefront: The Revolution si fa perfino fatica a capire perché i coreani si siano scomodati per imbastire l’intera operazione o, per dire, quali siano le mire della compagine nemica. Passando al versante alleato, c’è da dire che anche i nostri “compañeros” rivoluzionari non rappresentano certo il non plus ultra della caratterizzazione, ma tendono piuttosto ad aderire a profili stereotipici piuttosto banalotti, che li rendono – il più delle volte – istantaneamente detestabili. C’è il “buon dottore”, il “veterano tutto d’un pezzo”, quello con scritto in fronte “prossimo a morire” e la tipa “tosta e sadica” con la quale sperate di combinare qualcosa prima dei titoli di coda. Per quanto riguarda la trama in sé, la mancanza di un vero e proprio arco narrativo porta a “subire” buona parte della storia, che scorre tra cliché di genere senza mai riuscire a catalizzare veramente l’attenzione del giocatore. Facendo un paragone con l’originale Homefront, possiamo tranquillamente affermare che il titolo di Kaos Studios si piazza una spanna sopra questo sequel\reboot, sia come qualità narrativa che come atmosfera. Un vero peccato, considerando l’indiscutibile fascino del tema centrale del titolo di Dambuster Studios.
“Perché non riesco a colpirti?”
Ok, la storia non è niente di che, ma almeno il gameplay è una figata esplosiva, giusto? Bé… non proprio. Homefront: The Revolution non si distanzia, almeno superficialmente, dai crismi di altre produzioni del genere fps open world, Far Cry in primis: una mappa piuttosto estesa con punti di interesse che, una volta attivati, svelano dettagli precedentemente nascosti, avamposti da conquistare per aumentare presenza e morale delle forze rivoluzionare sul territorio cittadino, missioni principali arricchite da una buona quantità di incarichi secondari (ottenibili tramite apposite bacheche), e valanghe di oggetti da raccogliere per racimolare una piccola fortuna da spendere in armi\equipaggiamenti o per produrre oggetti. Malgrado si tratti di una formula ormai più che collaudata, la totale mancanza di spunti originali, unita alla costante sensazione che ogni meccanica sia semplicemente “abbozzata”, fanno sì che l’esperienza risulti piatta e priva di un reale senso di progressione. Sebbene, infatti, Homefront: The Revolution tenti disperatamente di immergere il giocatore nel clima “underground” del movimento rivoluzionario di Philadelphia, ponendolo spesso in situazioni numericamente svantaggiose e costringendolo a rapidi atti di guerriglia, seguiti da fughe precipitose, la debolezza di buona parte degli elementi che costituiscono il gameplay mina costantemente la godibilità dell’esperienza. Le dinamiche stealth, ad esempio, risultano drammaticamente inconsistenti, con avversari a volte in grado a percepire la nostra presenza attraverso muri di solido cemento, e subito dopo incapaci di notarci anche se a pochi metri di distanza e in piena vista. Falle che il gioco non tarderà a mettere in evidenza, dato che, in alcune aree, saremo costretti a tenere un basso profilo e optare per un approccio silenzioso che, il più delle volte, si rivelerà semplicemente frustrante. Il gunplay vero e proprio appare poi altrettanto problematico, a causa di un sistema di mira tutt’altro che soddisfacente, cui si accompagna una gestione delle hitbox decisamente migliorabile; due elementi su cui gravano anche le bizze di un framerate che, almeno su PS4, si conferma disastroso. Interessante, invece, il sistema di modifica “on the go” delle armi, che permette al giocatore di aggiungere accessori (ottiche, impugnature, caricatori, ecc.) alle proprie bocche di fuoco direttamente sul campo di battaglia, o di alterarne radicalmente “l’anatomia” per creare strumenti di morte totalmente differenti. Peccato solo che la sostanziale idiozia dell’intelligenza artificiale toccata in sorte ai poveri soldati coreani tenda a privare questa meccanica del giusto spessore strategico, dato che, il più delle volte, i nemici finiranno con l’avventarsi alla cieca contro di voi, pronti ad accogliere con un sorriso la rosa dei vostri pallettoni. L’IA degli alleati si dimostra egualmente erratica, e i vostri colleghi rivoluzionari avranno la sconsiderata tendenza a saltare di copertura in copertura, senza curarsi del fuoco dei nemici e senza mostrare alcun segno di un qualsivoglia istinto di autoconservazione. Da notare, tra l’altro, come il gioco non faccia mai esplicita menzione della possibilità di reclutare alleati da portare con voi come supporto. Allo stato dei fatti si tratta di una meccanica totalmente opzionale, è vero, ma il fatto non venga neanche accennato è perfettamente in linea – purtroppo – con lo stato generale di un gameplay che, ne siamo certi, avrebbe beneficiato di qualche altro mese di incubazione. Il gioco include anche una modalità cooperativa chiamata Resistenza, composta da missioni della durata media di 10-15 minuti da affrontare in compagnia di altri tre giocatori. Se da una parte la possibilità di unirsi a un gruppo di amici per completare specifici obiettivi risulta gradevole, dall’altra la povertà dei contenuti proposti vi porterà ad abbandonare la modalità in questione dopo appena qualche partita.
CIUMBIAAAAA!!!!
Ok, gente. Ci siamo. Un respiro profondo. Togliamoci subito il dente: dal punto di vista tecnico, lo sparatutto di Dambuster Studios – almeno nella sua “incarnazione” PS4 – è semplicemente disastroso. Malgrado il CryEngine sia, di base, un motore più che valido, una volta avviato Homefront: The Revolution risulta immediatamente evidente come il team di sviluppo non sia riuscito a sfruttarne le potenzialità. Ma neanche di striscio. Texture orrendamente sgranate, shader improbabili, ombre a quadrettoni e una fisica fantascientifica saranno i vostri fedeli compagni di viaggio per almeno una ventina d’ore, sempre che riusciate a sopportare un framerate che oscilla costantemente tra i 15 e i 25 fps, a prescindere da ciò che succede sullo schermo. Su PS4 è anche presente un’opzione che permette di aggiungere al gioco un filtro di antiliasing temporale che però, paradossalmente, peggiora il tutto con un effetto di ghosting piuttosto spiacevole.
Un vero peccato, perché la caratterizzazione architettonica e strutturale dei diversi quartieri di Philadelphia mostra personalità e stile, purtroppo affossati da una resa grafica mediocre. Ad aggravare ulteriormente il tutto, abbiamo una quantità spropositata di bug e glitch, alcuni dei quali intrinsecamente misteriosi e imprevedibili. L’ultima volta che abbiamo avviato il gioco, ad esempio, ci siamo trovati a passeggiare per le strade di una città totalmente deserta, senza punti di interesse segnati sulla mappa o personaggi con cui interagire più o meno violentemente. Il bug in questione si è dimostrato imperturbabile a riavvii, caricamenti e cambi d’area, costringendoci pertanto ad abbandonare per sempre il salvataggio in questione. Aggiungete a questo quadro disarmante una colonna sonora drammaticamente sottotono e monocorde (a tratti apertamente fastidiosa), e un doppiaggio scadente a dir poco (una delle battute cardinali della compagine nemica è proprio quella che dà il nome a questo paragrafo), e avrete un’idea piuttosto precisa dello stato attuale di Homefront: The Revolution.
Concludendo…
Homefront: The Revolution è un titolo mediocre, caratterizzato da un gameplay poco ispirato e da una comparto tecnico – almeno su console – disastroso. Il titolo di Dambuster Studios non riesce mai a conquistare veramente l’interesse del giocatore, anche a causa di una ritmica mal orchestrata e della totale assenza di un arco narrativo che conduca ad un obbiettivo chiaramente identificabile, fatta eccezione per un generico “facciamo il culo agli invasori coreani”. In tutta onestà, al momento della pubblicazione non siamo in grado di offrirvi nessun valido motivo per acquistare a prezzo pieno Homefront: The Revolution, e vi consigliamo pertanto di lasciarlo sugli scaffali.