Nel dubbio… spazzatura!
Istruzioni per l’uso
“In questo gioco non è possibile perdere. Nulla di quello che puoi fare è in qualche modo sbagliato, quindi prova semplicemente a prendere le cose con i tuoi tempi, con il tuo ritmo. Non soffermarti troppo sul tuo essere povero o sfortunato. Un giorno o l’altro, te ne andrai da questo pianeta.
C’è molto da vedere nello spazioporto… Prova a esplorare e a parlare con molte persone.
Un’ultima cosa. Questo gioco prevede una serie di routine: ogni giorno, tu vieni pagato per la spazzatura che hai incenerito durante quello precedente. La giornata giunge al termine dopo che hai mangiato e dormito.
Buona fortuna, e divertiti!
Questo spazioporto non si pulirà certamente da solo…”
(Direttamente da “How to play”)
La descrizione di un prodotto videoludico, solitamente, dovrebbe quantomeno permetterci di riuscire a delinearne i “connotati”, i contorni, in maniera tale da permettere a ogni videogiocatore potenzialmente interessato una ponderazione “di massima” in merito a un eventuale acquisto. Sulla carta, l’atto appena descritto non rende certo l’impressione di costituire un procedimento eccessivamente complesso. Dopotutto, come dire, si tratta solo di mettere da parte le opinioni personali per qualche migliaio di battute e confermare, criticamente, la bontà o la pochezza di un videogioco, giusto?
Può essere.
Eppure, negli ultimi anni, soprattutto a seguito dell’avvento dello splendido universo indie e della pubblicazione di giochi sempre più personali, enigmatici e artistici, difficoltà precedentemente non pervenute hanno cominciato a presentarsi. E via via, ad aggravarsi. Personalmente, in questi mesi, mi sono spesso trovato di fronte a titoli la cui semplice etichettatura si è rivelata ostica e non sempre incontestabile. In questi specifici casi, più volte, giunto al fatidico momento della fantomatica “valutazione”, mi sono chiesto quanto effettivamente fosse necessario e soprattutto davvero sensato l’inserimento di quello che è, in realtà, soltanto un numero. Come è possibile valutare un’opera secondo canoni ludici quando questa poco o nulla ha in comune con ciò che, secondo la “concezione collettiva”, è un videogioco?
Torneremo su questo punto al momento delle conclusioni, ma al momento, per quanto mi riguarda, permane un’unica certezza: mai, fino a oggi, un videogioco è stato capace di farmi vacillare a tal punto da dover riflettere sulle motivazioni del suo sviluppo e sulle idee che hanno portato alla sua creazione. Dopo una simile premessa, con la quale vi invito cortesemente a prendere le distanze da particolari aspettative, così come da ogni termine capace di ascrivere questo titolo a qualsivoglia genere videoludico, addentriamoci nelle profondità di Diaries of a Spaceport Janitor, la nuovissima creatura di Sundae Month.
Diaries of a Spaceport Janitor: il peso della routine
Diaries of a Spaceport Janitor ci offre la possibilità di vestire i panni di un operatore ecologico attivo entro i confini di uno spazioporto su un lontano pianeta. All’interno di questo “scenario lavorativo”, la nostra esistenza sarà totalmente subordinata alla routine giornaliera. Così, sin dalle prime luci dell’alba, saremo impegnati nella raccolta e nell’incenerimento di qualunque cianfrusaglia gettata al suolo. Durante il suo libero girovagare per l’intera area di gioco, il nostro alter ego (una simil-ragazza non umana) presenterà tre bisogni: cibo, riposo e “cambio di genere”. In realtà, il primo e il secondo sono strettamente collegati all’utilizzo dell’inceneritore, che prevede una carica giornaliera limitata che andrà calando a seguito di ogni utilizzo. Se non mangeremo (acquistando qualche squisitezza dai distributori automatici o da uno degli innumerevoli mercanti), la batteria si scaricherà anzitempo, comportando così la precoce comparsa della stanchezza, che come avrete ben capito coincide semplicemente con lo spegnimento dell’inceneritore. Per ricaricarlo dovremo tornare a casa prima del dovuto e dormire. Dovremo quindi fare attenzione, perché essere poco produttivi avrà conseguenze dirette sul nostro portafogli: ogni giorno riceveremo infatti un corrispettivo in crediti a seconda del numero di oggetti inceneriti durante quello precedente.
Discorso differente per l’inconsistente feature del “cambio di genere”, che periodicamente ci obbligherà ad acquistare e mangiare dei non ben definiti oggetti (disponibili presso un apposito distributore) che provocheranno quello che è definito appunto “gendershift”. Trascurare per lungo tempo questa necessità provocherà un fastidiosissimo sfarfallio delle immagini, impedendoci di proseguire adeguatamente la nostra avventura. In tutta onestà, potevamo farne a meno.
In ogni modo, che cosa succede quando esaurite le batterie o calata la sera si torna a casa? Ebbene, si va a nanna e prima di finire tra le braccia di Morfeo (volendo) si scrive un pensiero sul diario. E poi? E poi si ricomincia da capo: giù dal letto, accesso al terminale vicino alla porta e ritiro dello stipendio. E si riparte.
Introdotto quello che è il gameplay di base rintracciabile in Diaries of a Spaceport Janitor, concentriamoci ora su due meccaniche che vanno ad aggiungersi a quanto già detto. Queste consistono nel sistema di compravendita, ragion d’essere della già nominata valuta di gioco, e nella “fortuna”. Anche in questo caso non manca un forte legame tra le due features, ma procediamo con ordine. Già durante i primissimi minuti di gioco avremo modo di notare l’innumerevole numero di banchi e mercanti posti ai lati delle vie del bazar. A nostra discrezione, ogni giorno, potremo interagire con loro e acquistare o vendere ogni tipologia di cianfrusaglia. Inoltre, per l’intera durata dell’esperienza di gioco, tutti i venditori subiranno una rotazione giornaliera e potranno offrirci prodotti sempre diversi. Per rendercene conto, ci basterà dare un’occhiata alle merci esposte. Molto presto comprenderemo che il vero metodo per aumentare considerevolmente il capitale consiste non nell’incenerimento della spazzatura, bensì nella vendita degli oggetti che raccogliamo. Sarà bene quindi cominciare ben presto a fare attenzione a quello che mettiamo nello zaino e soprattutto a quello che inceneriamo, perché in preda alla confusione dovuta alla mole di oggetti disponibili potremmo accidentalmente dire addio per sempre a dei cimeli di valore. Ma cosa andrà mai a influenzare la tipologia di oggetti nei quali rischieremo di inciampare? Il fattore “fortuna”, ovviamente. Quest’ultimo consiste semplicemente in un valore numerico soggetto a continua variazione. Questa avviene in dipendenza del nostro comportamento e soprattutto della nostra fedeltà verso… una serie di curiose divinità. Proprio così: nello spazioporto si nascondono infatti numerosi altari (uno per ogni alta entità) coi quali sarà possibile interagire. Alla lunga, la preghiera unita all’omaggio mediante doni potrebbe fare di voi dei “janitors” fortunati. E ricchi.
Un microcosmo che è più di una semplice ambientazione di gioco
Un discorso a sé stante, data la natura di Diaries of a Spaceport Janitor, deve essere fatto per quella che è l’ambientazione di gioco. Questa, nel nostro caso, non si limita a semplice “contenitore” delle meccaniche ludiche, bensì arriva a costituire parte integrante del “pacchetto”, trascendendo nettamente quello che dovrebbe essere il suo ruolo.
In questo senso, lo spazioporto costituisce senza dubbio una piccola vittoria per Sundae Month, che è riuscita a dare forma a un microcosmo sensibilmente vivo, movimentato e a dir poco peculiare. Tra giganteschi monumenti, banche, lotterie, misteriosi dungeons da attraversare sotto l’effetto di droghe, simil-ziggurat panoramiche, loschi bar e piacevoli giardini purtroppo ricoperti di spazzatura, si estende il nostro bazar, un mondo in realtà non così vasto, eppure sorprendentemente profondo e in attesa di essere esplorato in ogni suo angolo. Le sue intricate vie sono attraversate da esseri tanto improbabili quanto imprevedibili, bislacchi, ansiosi di raccontarci qualche stramberia, qualche cosa priva di senso compiuto. In mezzo a loro, cerchiamo invano di sfuggire alla baraonda di voci, rumori e musica, che ci assale con veemenza mentre costeggiamo degli instabili palchetti ospitanti band le cui capacità musicali, non ce ne vogliano, sono assai discutibili. Ma ecco che all’improvviso veniamo colti di sorpresa dall’insistente strombazzare di un ingombrante cargo gremito di “bella gente”. I vicoli sono stretti, non sarà facile passare. E intanto, ci siamo persi. Niente paura: sarà sufficiente seguire le frecce colorate per recuperare l’orientamento e arrivare al distretto di nostro interesse. E a proposito di colore, è palese come sia quest’ultimo a dominare incontrastato la scena, esaltato da una componente grafica adeguatamente semplifica e attempata, secondo un modus operandi al quale il panorama indie ci ha (nuovamente) abituati.
Complessivamente, lo spazioporto è quindi un microcosmo che nel suo piccolo ha molto da offrire. Per essere precisi c’è parecchio da vedere e poco da fare, ma dopotutto siamo qui per lavorare, giusto? In un modo o nell’altro, ricollegandomi ora a quanto detto a inizio paragrafo, risulta evidente come l’ambientazione, oltre a dare fattezze formali e stilistiche a Diaries of a Spaceport Janitor, ne costituisca anche un “ingranaggio” funzionale, capace di intervenire sugli equilibri del gameplay bilanciandone l’inevitabile (e voluta) monotonia di fondo. Come capita spesso nei videogiochi indie più particolari, la “location” di gioco occupa quindi un ruolo di prim’ordine, divenendo “condicio sine qua non” del gameplay. In conseguenza di ciò, presa coscienza della sua “pochezza” ludica, potremmo forse affermare che Diaries of a Spaceport Janitor altro non sia che il suo comparto estetico? Chi compra, per quale motivo lo fa? In quale parte del prodotto il giocatore colloca “il contorno” e in quale il “piatto forte”? È il “melting pot cosmico”, con tutti i suoi colori accesi e le sue forme “alternative”, o magari il giocare a fare gli ambientalisti spaziali che risulta appetibile? Difficile dirlo.
L’estetica per fini commerciali è paracadute per una carenza di idee, scelta ben ponderata e dovuta al contenimento dei costi di produzione, o addirittura vera e genuina base di partenza sulla quale è stata edificata l’intera struttura? Una domanda che nasconde un tentativo di individuazione del (vero) peso specifico della “forma” all’interno di Diaries of a Spaceport Janitor. Un tentativo che, per dovere di cronaca, non ha avuto successo.
Concludendo…
A seguito di tutto ciò che è stato scritto, un’ipotetica valutazione di Diaries of a Spaceport Janitor non potrebbe che risultare superflua e non obiettiva.
DOASJ, concretamente parlando, rappresenta il trionfo della soggettività e la sconfitta della “visione” critica del videogioco. Impossibile da consigliare a una ben precisa “fascia” di giocatori (neanche una di quelle più ristrette), si tratta di un’esperienza appositamente indirizzata al singolo, e classificabile unicamente secondo quella che è la sua personalissima opinione. Capace di suscitare qualsivoglia tipologia di reazione nel suo fruitore, quello di Sundae Month è un videogioco potenzialmente vettore di curiosità, noia, assuefazione, divertimento (passeggero o meno), apatia o incomprensione. L’unico modo per farsi un’idea è tastare con mano, anche una volta soltanto.