Ho sempre avuto un’altissima considerazione dell’ambito videoludico. Tra tantissimi bassi, altrettanti “insapore” e pochi, reali perle, il videogame per me è sempre stata una forma superiore di arte e intrattenimento. E, nei casi in cui lo fosse richiesto, limitatamente al mio ambito più strettamente geografico, ho sempre difeso a spada tratta l’arte dei videogame dai soliti, stereotipati pre-concetti. «I videogames sono violenti», «i videogames sono infantili», «i videogames sono stupidi»: frasi da me, purtroppo, ascoltate migliaia di volte e a cui, per altrettante migliaia di volte, è seguitata una risposta secca (spesso, sinceramente, volta a sottolineare la paradigmatica ignoranza dell’altro interlocutore sull’argomento). Non solo: oltre ad una difesa d’ufficio, sono da sempre intimamente convinto che i videogame siano sempre e comunque forieri di positività. Strumenti di socialità, di avvicinamento ad altre culture e di cura allo stress: la mia convinzione era ed è sempre stata che il videogioco, per sua natura, sia una componente fondamentale e pronta ad accogliere tutti coloro che decidano di “dare uno strappo” momentaneo al quotidiano tran tran, allontanandosi per qualche ora da una realtà non sempre benevola. Ma il mio convincimento sul valore intrinseco degli “elettroludi” non era solo ed esclusivamente volte a dar loro le vesti di una “ricaricante estraniazione”: i videogames sono un cumulo delle migliori arti umane che, proprio in essi, confluiscono per creare opere uniche in grado non solo di veicolare divertimento e intrattenimento d’alto livello, ma anche qualità estetiche, concettuali e narrative eccezionali e che rendono, nei fatti, i videogiochi una delle più alte espressioni concettuali umane. Ma, a mie spese, mi sono accorto che purtroppo, anche i videogame non possono nulla contro le più classiche storture dell’animo umano e del vivere umano. Una “sorpresa” parziale, anche perché nonostante non vi sia nulla al mondo di totalmente positivo o negativo, ho sempre ingenuamente pensato che l’ambito videoludico fosse uno dei più vicini alla “luce totale”. Ma, in realtà, il fato ha deciso di mostrarmi, in modo molto ordinario e semplice, cosa è effettivamente in grado di fare un videogioco: unire ma anche dividere.

Ecco che, in un singolo giorno e nella mia più grande meraviglia, sono venuto a conoscenza di due storie totalmente agli antipodi e che, com’è lecito attendersi, hanno come protagonisti i videogame. Due storie che mi hanno lasciato un po’ interdetto, sia positivamente che negativamente. E che, inaspettatamente, hanno anche altresì avuto un (limitato ma avvertito) impatto emotivo e che, almeno in parte, hanno scosso un po’ il mio pensiero sull’argomento. Prima facendogli “spiccare il volo”, per poi improvvisamente ritornare saldamente coi piedi nel terra, sporcandosi anche un po’ di fango. Perché, diciamolo chiaramente: noi videogiocatori (ma quelli veri, non tizi e tizie che mordono i pad sui social per attirare l’attenzione degli sponsor) abbiamo forse un concetto troppo positivo, troppo “ingenuo” dei videogame. E ancora: noi videogiocatori veri, pensiamo che in fondo i videogame siano pura arte (e in larghissima misura è vero), colma di significato e senza controindicazioni o quasi. Dicevo, un impatto emotivo dovuto innanzitutto alle vicende raccontate in sé, alle storie. Ma anche e soprattutto dovuto a ciò che, con la gestualità, lo sguardo e la voce, le persone che hanno speso del tempo a raccontarmelo mi hanno poi effettivamente trasmesso: gioia, stupore, sofferenza e tristezza. Un caleidoscopio di sensazioni, anche “non comunicanti” tra loro, che mi hanno indotto a riflettere: videogiochi che uniscono, videogiochi che dividono.

Iniziamo con una storia positiva: per questioni lavorative, spesso ho a che fare con diverse persone delle più disparate, dai bambini agli adulti passando per attempati nonnini e nonnine. Con loro, se ovviamente c’è lo spazio e la volontà bidirezionale per farlo, spesso mi fermo a scambiare due battute per “rompere” il ghiaccio. La prima storia, me l’ha narrata un ragazzo di circa 30 anni, appassionato di videogame. È una storia forse comune per chi gioca da anni, ma probabilmente non lo è per chi si è avvicinato ai videogame da poco tempo. Tra una parola e l’altra, è fuoriuscito l’argomento guerra che purtroppo, tra vera disperazione e ricostruzioni storico-politiche superficiali tanto per tirare l’acqua al mulino di turno, è su tutti i media continuamente. Proprio parlando di guerra, il ragazzo mi ha raccontato di una sua esperienza, attualmente in divenire, e che stava vivendo proprio grazie ad un videogame di ruolo online, uscito di recente: costui mi ha parlato di un gruppo di ragazzi provenienti da tutto il mondo e che, addirittura con orari quasi incompatibili (ve ne sono alcuni asiatici o che vivono in Australia), si ritrovano su Discord per giocare assieme quasi ogni giorno.

Voi direte: cosa c’è di “eccezionale”?

È presto detto: nel gruppo, composto da circa 20 persone di diverse culture e nazionalità, vige una e una sola regola, aiutare tutti. Ecco che mi ha narrato di un ragazzo australiano che ha messo la sveglia alle 4 (con il lavoro che lo attendeva alle 7) per aiutare un altro membro, francese, ad affrontare delle missioni complicate e con un limite di tempo per portarle a compimento. Oppure di un paio di ragazzi britannici che, tra una partita e l’altra, cercavano di insegnare l’inglese a due elementi del gruppo provenienti dall’est Europa che faticavano un pochino a masticare la lingua di Albione e che, quindi, avevano qualche difficoltà nel comprendere alcune meccaniche del gioco. Come facevano? Con Google Translate (e non senza qualche grattacapo), ma con lo spirito di voler crescere e creare qualcosa insieme, investendo del tempo nell’aiutare l’altro a sovvertire limiti artificiali e naturali. E le storie, mi ha ripetuto, ve n’erano altre ancora: si va avanti tutti assieme e tutti vengono aiutati a salire di livello e potenziare il proprio arsenale. Tanto che, all’interno del Discord, è stato creato un canale testuale coi livelli di tutti, in modo che i giocatori più “recenti” possano esser individuati ed aiutati, al fine di spronarli a continuare a giocare. Videogiochi, dunque, che uniscono e che, con la “scusa” del superare i classici “muri concettuali” insiti nelle meccaniche di ogni videogioco, travalicano ogni barriera.

L’enorme soddisfazione provata da videogiocatore incallito dopo aver ascoltato questa storia, è durata però meno del previsto: solo dopo poche ore, un’altra storia è arrivata alle mie orecchie. Stesso argomento (videogame e relazioni tra persone), atmosfera completamente agli antipodi con un epilogo diametralmente opposto. In questo caso, a parlare era un ragazzo poco meno che ventenne: appassionato di un noto sparatutto competitivo free to play, mi ha raccontato di come fosse arrivato ad odiarlo («per me non esiste più») perché motivo di “scontro” tra lui e un paio di amici. Mi narrò che, con due suoi compagni di classe, scoprirono il citato videogame un paio d’anni fa e di lì iniziarono a giocarci un bel po’. Mi parlò di pomeriggi interi passati assieme a «ridere e bestemmiare» giocando. E poi le uscite serali la sera, tra una birra e una passeggiata, a parlare di tante cose fra cui, appunto, la loro passione per il suddetto sparatutto. Ma dopo qualche mese di svago e divertimento, la “rottura” improvvisa: i suoi due amici fanno, per gioco, un provino per un clan competitivo e vengono accettati. Lui fa lo stesso, viene preso anch’egli però, ben presto, si rende conto che videogiocare, da passatempo, è divenuto un vero e proprio lavoro con dei ritmi scanditi da impegni quotidiani costanti ad orari prestabiliti: decide, quindi di abbandonare il tutto. I suoi due amici, al contrario, trovano la cosa molto divertente e decidono di restare. Di lì, mi ha raccontato, è stato un costante «clan»: ogni qual volta avrebbe voluto giocare assieme (o addirittura uscire), i suoi due compagni gli rispondevano, appunto, che erano impegnati con il clan. La qual cosa, mi ha raccontato, ha avuto anche degli effetti deleteri sulla resa scolastica dei due. Quando il ragazzo ha provato a parlare della situazione deleteria, dicendo loro di lasciare il gruppo organizzato e ritornare alla vita di prima, la reazione è stata “violenta” da parte loro, arrivando addirittura ad accusarlo d’esser “invidioso” e che se teneva alla loro amicizia, avrebbe dovuto rientrare nel clan.

L’epilogo? Il ragazzo mi ha raccontato che i rapporti coi due si sono completamente raffreddati: coi suoi compagni, al momento, scambia si e no qualche parola ogni tanto, ignorandosi per la maggior parte del tempo. Da quella esperienza, occorsa alcuni mesi fa, il ragazzo ha tratto conclusioni “scioccanti”: «non bisogna fidarsi di nessuno» e che l’amicizia c’è «finché c’è un interesse». Senza contare che, a causa di quest’esperienza, il ragazzo ha smesso completamente di giocare ed ha venduto la sua console: una totale “apocalisse” personale. Il racconto mi ha lasciato di stucco, non tanto per gli eventi narrati in sé (tutto sommato, “negativamente ordinari”) ma per il trasporto con cui il ragazzo lo ha esternato: una voce a tratti rotta, un viso sofferente, uno sguardo in certi punti perso nel vuoto. Dunque, una storia davvero sofferta: un qualcosa che, comunque, mai avrei immaginato in questi termini e che potesse provocare, in qualcuno, tanto “dolore”.

Storie normali, direte voi, ma che mi hanno fatto riflettere: i videogiochi sono uno strumento largamente positivo, in grado anche di unire le persone e disintegrare ogni barriera mentale e culturale, ma purtroppo non in grado di contenere tutto il possibile “male” di cui siamo capaci in quanto persone. E, per questa ragione, la loro decantata eccezionalità, nell’effettività delle cose, scema ad una ordinarietà sin troppo altalenante. E non oso immaginare quante altre storie respirino lì fuori pronte per esser raccontate, in un senso o nell’altro. Dunque, come da titolo, videogiochi che uniscono e videogiochi che dividono: ma essi sono solo, in fondo, uno strumento. Il merito o il demerito di ogni cosa, come al solito, giace nel palmo della nostra mano e tra i filamenti “elettrificati” del nostro cervello: siamo noi e nessun altro a rendere qualsiasi cosa positiva o negativa.

Articolo precedenteBack 4 Blood: rivelato il trailer di lancio del DLC “Tunnel del Terrore”
Prossimo articoloEstrazioni Lotto di oggi sabato 09 aprile 2022
Amante dei videogiochi, degli animali e del buon cibo, non rinuncio ai piccoli piaceri ludici e ad una buona compagnia! Anche Online!

E tu che ne pensi? Facci conoscere la tua opinione!