Cosa si prova ad essere un naufrago dello spazio, sperduto nel vuoto interstellare all’interno di una minuscola capsula malfunzionante?

Sicuramente è questa la domanda che si sono posti William Burke e Jonathan Pourrez, gli ideatori francesi di Tin Can: Escape Pod Simulator, quando hanno concepito questo – intrigante – titolo indie.

La risposta alla domanda è paura, angoscia, ma soprattutto…ansia!

In space, tech support can’t hear you scream!

Come avrete già intuito la premessa di Tin Can è piuttosto singolare: in seguito ad un disastro spaziale ci ritroveremo dentro una capsula di salvataggio, con l’obiettivo di sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi. Inutile parlare della storia, perchè non ve n’è alcuna traccia: Tin Can è una sorta di esperimento, un survival puro, dove il perché o il percome della situazione è assolutamente irrilevante. Rilevante è, invece, sopravvivere e rimanere in vita, perché la capsula di salvataggio non è esattamente un ambiente sicuro, come ci si aspetterebbe…

Non appena si avvia il gioco vengono proposte diverse modalità di gioco, la Classica, la Sandbox, il Ranking ed una modalità Party.
Nella modalità Classica ci si ritrova a dover affrontare la sopravvivenza pura nella nefasta navetta durante un numero incrementale di minuti, per poi essere salvati. Il primo minuto di gioco si gioca in una sezione della nave madre in fiamme e si devono trasportare più pezzi di ricambio possibile dentro la navetta di salvataggio. Quest’ultima infatti è solo parzialmente assemblata, quindi è molto importante riuscire a caricare quanti più pezzi diversificati possibile. Generalmente, gli scenari di questa modalità sono impietosi: la navetta passa ogni 5 minuti per zone dello spazio davvero poco sicure, dove si susseguono eventi spaziali catastrofici. Questi, invero, non sono tantissimi, spaziando da tempeste solari, a piogge di meteoriti e buchi neri.

La modalità Sandbox consente invece di utilizzare la navetta integra – quindi senza alcun problema iniziale – in modo da divertirsi e familiarizzare a dovere con la formula di gameplay. La modalità ranking, d’altro canto, è una sorta di gara a tempo, dove al giocatore sarà richiesto di sopravvivere il più a lungo possibile, per poi confrontare i propri tempi con tutti i giocatori del gioco attraverso una leaderboard. Infine, la modalità Party è concepita come una sorta di “gioco da tavolo”, sulla falsariga di altri titoli come Keep Talking and Nobody Explodes, a cui potranno prendere parte due o più giocatori: uno dovrà guidare lo sfortunato protagonista mentre gli altri, PDF del manuale alla mano, dovranno indicare all’altro cosa fare quando si presenta un’anomalia. Diciamo che oggi la modalità Classica è forse la più interessante in termini di gameplay, ma la Ranking rappresenta una bella sfida che molti potrebbero apprezzare.

How long will you survive?

La navetta del protagonista è al momento disponibile in due varietà diverse – la Medusa Mark III, minuscola e dalla classica forma cilindrica, oppure la Relay Station IX, sempre angusta ma decisamente più ampia e spaziosa. Quest’ultima è indiscutibilmente meno claustrofobica, ma anche più difficile da gestire dato che i vari pannelli sono situati a distanze più ampie e, quando la gravità viene a mancare, muoversi è esponenzialmente più complicato.

La sopravvivenza del protagonista, in soldoni, dipende da tre fattori principali: aria respirabile, temperatura e pressione. La generazione di aria respirabile richiede che i generatori di ossigeno e smaltimento CO2 rimangano sempre efficienti ed entro i parametri stabiliti, come illustrato nel tutorial iniziale. La pressione è generata da un componente dedicato e deve ovviamente rimanere simile a quella del nostra amato pianeta natale. La temperatura viene infine gestita dalla pila atomica principale, che ovviamente serve anche per tutti gli altri sistemi, ovvero le luci (comprese quelle di emergenza), il computer di bordo (quasi sempre inutilizzabile a parte nella modalità Sandbox), un sistema di riparazione automatico, un convertitore di CO2 in O2, un caricatore per le batterie, il generatore di gravità.

Sempre presente anche un generoso manuale che illustra tutte le procedure di riparazione dei vari sistemi, oltre che un elenco volutamente confuso dei codici di errore indicati dagli strumenti. L’ausilio di quest’ultimo oggetto è un po’ controverso, specialmente nella modalità Classica: considerato che non c’è davvero tregua alle calamità piombate addosso al giocatore, raramente c’è il tempo di poterlo utilizzare realmente – mettersi a leggerlo significa che si è in procinto di fare una terribile fine.
Ogni sistema possiede un pannello per la manutenzione, che può essere liberamente aperto per verificarne lo stato od effettuare riparazioni, semplicemente sostituendo i componenti guasti. Tutti, infatti, possono deteriorarsi in seguito ad infausti eventi o semplicemente in maniera casuale: al povero giocatore il compito di scoprire quale sia guasto e mantenere tutto in efficienza – spesso sacrificando parti dei sistemi meno importanti, come le luci, per poter sopravvivere.

Life is fragile…

La visuale è tutta in prima persona e consente al giocatore di muoversi liberamente nella capsula di salvataggio. Tramite il tasto azione è possibile interagire con gli elementi della nave per azionare leve, bottoni ed aprire/chiudere cassetti o pannelli. I due tasti del mouse rappresentano le mani dell’astronauta, quindi alternandoli si possono afferrare contemporaneamente due oggetti, anche se questa interazione è erratica e rappresenta uno dei problemi del gioco.

Sfortunatamente, il gameplay è piuttosto frenetico e spesso non c’è tempo di sbagliare: dato che non sempre l’aggancio al componente desiderato è preciso, ci si ritrova talvolta a manipolare l’oggetto sbagliato, oppure situato subito dietro a quello voluto, perdendo tempo e anche la vita…
Quando il generatore di gravità viene a mancare inizia la parte difficile: senza la preziosa forza invisibile che ci tiene incollati al pavimento, il protagonista inizierà a fluttuare nell’aria e sarà sempre necessario utilizzare una mano per afferrare una delle numerose maniglie sparse per l’abitacolo. Tramite un uso combinato di mouse e tastiera, quindi, ci si possono dare slanci aspettando che la fisica faccia il resto per raggiungere i componenti più lontani. In queste situazioni ci si sente veramente castrati dal sistema di controllo e coordinare le varie dita sul mouse/tastiera risulta intricato. A questo proposito è bene far presente che entro fine anno è previsto il supporto per i caschi VR, upgrade decisamente “stuzzicante” considerata la peculiarità del gameplay.

Comparto tecnico.

Tin Can fa uso dell’onnipresente Unity. La grafica è piuttosto semplice, ma tutto sommato fa il suo dovere – si tratta pur sempre di un indie sviluppato da cinque persone, ma talvolta risulta davvero gradevole. Forse la parte meno convincente del comparto grafico sono i video statici in CGI che fanno talvolta la comparsa per “incollare” le sezioni del gameplay, che risultano davvero poco rifiniti per gli standard odierni. In caso di morte, poi, si verrà brutalmente schiaffati in una pagina testuale del menu, atta ad indicare la causa del decesso, con qualche consiglio sulle future spedizioni. In questo caso, si poteva fare molto di più.

Il comparto audio è di buon livello, sfoggia un paio di pezzi musicali ambient abbastanza ispirati, che non stancano facilmente, mentre gli effetti sonori, ridotti data la natura del gameplay, sono stati selezionati con cura. Durante le sessioni non abbiamo incontrato bug degni di nota né alcun crash – considerata la grafica molto semplice si tratta di un gioco poco esoso di risorse (raccomandano almeno una GTX 960 per giocare), mentre tra le 13 lingue disponibili per ora purtroppo non figura l’italiano.

Concludendo…

Tin Can è un titolo piacevole che può regalarvi una decina di ore di gioco spensierato. Nonostante un comparto grafico essenziale riesce comunque a mettere ansia e generare adrenalina in alcune fasi, grazie ad un saggio uso delle illuminazioni ed un comparto audio di buon livello. La longenvità è molto soggettiva: la modalità classica può essere completata abbastanza velocemente, mentre per le altre – concettualmente – non c’è un tempo massimo. Purtroppo, quello che manca veramente a questo titolo è una buona revisione del sistema di controllo, al momento troppo impreciso, oltre che ad una carenza di contenuti alla lunga “pesante”.

Sarebbe stata davvero coinvolgente anche una reale modalità multiplayer che consenta a due o più naufraghi spaziali di condividere l’esperienza…

CI PIACE
  • Concept intrigante.
  • Gameplay a tratti molto coinvolgente e claustrofobico.
  • Un buon comparto tecnico che immerge il giocatore.
NON CI PIACE
  • Sistema di controllo poco preciso e spesso inattendibile.
  • Troppo poco contenuto al momento per garantire longevità.
  • Nessuna reale modalità multiplayer.
Conclusioni

Tin Can è un indie veramente ben rifinito e particolare, che diverte e va senz’altro tenuto d’occhio. Nonostante un gameplay che per la natura stessa del titolo tende ad essere ripetitivo e poco vario, garantisce comunque momenti di pura tensione e claustrofobia. E’ già stato annunciato il supporto VR per fine anno, una funzionalità che prevediamo possa aumentare esponenzialmente il coinvolgimento – perciò aspettiamo fiduciosi!

VERDETTO

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Gabriele o “Gabe” per gli amici, è un informatico di professione ed inguaribile videogiocatore. Cresciuto a colpi di Commodore 64 ed Amiga è papà di due bellissimi bimbi che ormai gli rubano quasi tutto il tempo. La sua passione sono l’informatica, il cinema, la musica ed un giorno spera di finire e vedere pubblicato il suo primo videogame … quando trova il tempo!

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