Storia di una forzosa massificazione ed “elevazione seriosa” di un semplice passatempo traboccante arte, per questioni di marketing

Diversi lustri or sono, mi avventurai con i canonici dubbi e le classiche incertezze d’un ragazzino nel difficile mondo delle scuole superiori. E, nonostante io non sia un campione di memorizzazione, ho un ben preciso ricordo di uno dei primissimi giorni di scuola: era ricreazione, non conoscevo nessuno (avevo avuto la “sfiga” di capitare in una classe con dei gruppetti pre-costituiti, perché provenienti dalle stesse scuole medie). Perciò, non avendo nulla da fare, tirai fuori una copia, comprata alcuni giorni prima, di un notissimo magazine videoludico, con l’intenzione di spulciarmelo ben bene in attesa della ripresa delle lezioni. Solo alcuni istanti dopo, mi si avvicinò un compagno (che poi, sarebbe divenuto uno dei miei amici storici e con cui ho rapporti, sebbene più rarefatti rispetto al passato, ancora oggi). In un secondo, stringemmo amicizia ed iniziammo sin da subito a discutere dell’ultimo Resident Evil o di come affrontare alcuni difficili boss in Final Fantasy VII. Nel mentre discorrevamo animatamente, passò un gruppetto di nostri compagni (che non conoscevamo) che, dopo un prima occhiata al nostro giornale, si abbandonò a risatine perché, per loro, non erano argomenti da “adulti” ma da “bambini”. Una questione che, chi ha superato i trenta da un po’ e ancora si “trascina” dietro la passione dei videogame, conosce molto bene: d’altronde, superare la definizione di “giochini elettronici” è ancora un miraggio oggi, per certi versi, figurarsi 20 anni fa. Fast forward ad oggi: mio malgrado, ho modo spesso e volentieri di intrattenermi con genitori che acquistano prodotti tecnologici (tra cui videogame) e, al contempo, assistere a “disquisizioni” filosofiche sul senso stretto del gaming, spesso tra ragazzini nemmanco maggiorenni. Ed è proprio in una situazione del genere, alla domanda se anch’io fossi un “gamer”, mi venne spontaneo rispondere: «No, sono un semplice appassionato». E, a quel punto, l’altro interlocutore, incredulo, mi esternò che effettivamente era la stessa cosa. Io, al contrario, gli spiegai che, nei fatti, erano due mondi vicini ma agli antipodi e che mai e poi mai avrebbero potuto incontrarsi.

Rispetto al citato passato, il mondo odierno è completamente diverso. Anzi, oggi, l’essere un gamer è quasi una medaglia da sfoggiare impettiti, quasi un necessario pre-requisito del ragazzino al passo coi tempi, quasi uno “standard” argomentativo onde evitare di divenire “outsiders”. Oggi, sembra che chiunque, maschi e femmine, abbia un canale su Twitch, faccia “lelaiv”, compri e passi del tempo con la “plei” e abbia una conoscenza (molto) di base del mondo videoludico. Insomma, giocare è “trendy”, per usare un termine anacronistico ma efficace. E, per noi che eoni videoludici fa, speravamo che il mondo dei “giochini elettronici” divenisse affermato e rispettato come settore “dignitoso”, oggi ci ritroviamo nostro malgrado a vivere una seconda ondata “infamante” per la nostra passione. Prima, dovevamo “nasconderla” per non apparire infanti e immaturi (tra l’altro, agli occhi di chi gettava centinaia di lire/euro in alcolici, vestiti alla moda, cellulari, droghe e quant’altro). Oggi, dobbiamo nasconderla per non essere associati alla categoria del “gamer” che, paradossalmente, ha sublimato quello stesso concetto, ma vestendolo di uno pseudo lustro che, nella fattispecie, esiste solo nella mente degli “esperti” di marketing delle grandi aziende. Anni addietro, il “gamer” comprava il “giornalino” e dibatteva, spesso animatamente, con (pochi) amici altrettanto appassionati che, nella migliore delle ipotesi, si ritrovavano a casa di qualcuno per un “lan o couch party” (tra l’altro, ognuno con la propria console/Pc e televisore/schermo).

Oggi, il “vero gamer”, s’informa sui siti che “diluiscono” le notizie il più possibile per far guardare più pubblicità possibili; non può non avere un cam, non può non avere una sedia da “gaming” (che poi, in cosa si diversifichi da una sedia da ufficio, solitamente molto meno costosa, ancora devo capirlo), non può non avere una pagina social auto-celebrativa in cui mette in vetrina una sequela di video di You Tube dove, forzatamente, imbastisce spettacolini tendenzialmente artificiosi e dai contenuti solitamente trascurabili. Ovviamente, spettacoli che però li vedono giocare, solitamente, ai titoli di tendenza (ovvero, quelli che hanno tantissimi soldi a disposizione per comprare gli “influenZer” più conosciuti). Perché, si sa, il vero “gamer” deve “esibire” la sua professione e la sua bravura. Oggi, al vero “gamer”, vengono regalati sconti per le bevande energetiche, gusci in silicone anti-scivolo e guanti in gomma per “aumentare le prestazioni” perché, se su Warzone non arriva per forza primo, allora si è falliti e si farebbe meglio a vendere la console. Oggi (ma, spesso, i ragazzini non lo sanno perché più “deboli” mentalmente), essere un gamer sembra semplicemente un altro modo per elevare a dogma totalizzante quella pseudo legge della giungla che domina il nostro modo di vivere “soldifero”. Oggi, se non imbracci un pad davanti ad un non meglio definito pubblico, il videogiocare stesso sembra “sparire” in una coltre indefinita.

Per queste questioni (e tantissime altre che ho volutamente tralasciato per non tediare eccessivamente) oggi, specialmente per chi ha qualche anno in più, dire d’esser videogiocatori è una iattura per certi versi peggiore del passato. Credo infatti che una vastissima platea di videogiocatori almeno dai 25 anni in su, possa essere completamente d’accordo: noi “ vecchi” non siamo gamer, ma semplici appassionati. Degli esseri umani basilari che vogliono (quando hanno il tempo) semplicemente imbracciare un pad o un mouse e tastiera e divertirsi, magari anche tra un anatema e l’altro che, nei videogame, sono ormai uno “standard”. Zero target, zero artifici, zero costrizioni d’apparire per farsi seguire. Non abbiamo voglia di esibirci (ci ho anche provato, senza successo, tempo addietro, per vedere com’era: ho mollato dopo pochi giorni perché mi era passata la voglia di giocare). Non dobbiamo, per forza di cose, improvvisarci (avete presente il meme del pagliaccio che si trucca?) show man per elemosinare (poche) lire da altrettanti (pochi) spettatori: perché (e noi vetusti imbracciatori di pad e tastiere lo sappiamo), quello non è un lavoro e non è una professione, ma solo pubblicità a pagamento e un modo per svilire ulteriormente un settore che non riesce a liberarsi della maledizione che lo vuol “roba da bimbi”. Non abbiamo necessità di sedie ultra costose e multicolore, né di cam piazzate strategicamente (*occhiolino alle videogiocatrici), né di endorsment di case di produzione o di multinazionali, né di camerette “da gaming” intrise di armadi colmi della “giusta roba” che mostri la nostra passione, coadiuvati dagli immancabili led quasi fossimo in un eterno vernissage: vorremmo semplicemente giocare, punto, quella mezz’ora per far finta che lì fuori, in fin dei conti, esista poco o nulla. Anche in una cantina buia ed umida, dove persino internet non funziona: ma, magari, con un piccolo divanetto e un secondo pad, per massacrare il nostro amico che, incredibilmente, ha trovato il tempo di raggiungerci per una partita a Tekken. Per tutte queste semplici ragioni, noi non siamo gamer ma semplici appassionati di videogames: due mondi vicini e paralleli, ma che non potranno né tanto meno potrebbero mai “tangersi” sul serio.

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