Fare un videogioco è una questione di arte, spesso e volentieri. E’ necessaria una buona fusione di creatività e di stile per attirare un determinato pubblico. Ancora più complesso, a volte, è riproporre un titolo di un genere fin troppo sperimentato: in quel caso la miscela di elementi è ancora più cruciale, ancora più complessa e determinante. Periodo, inizio anni ’80 o fine anni ’90: una pletora di titoli d’azione si presenta, ‘con violenza’, sul mercato e l’avvento di un nuovo nome rischia di finire nel dimenticatoio fin troppo facilmente. Poi c’è “Shatterhand”, e per fortuna lui non sbaglia. Jaleco prende un titolo Natsume uscito in Giappone, ispirato a una serie del genere tokusatsu con super-eroi ed effetti speciali, e lo occidentalizza, trasformando il ragazzo eroico capace di trasformarsi in simil-robot in un grosso omaccione, Steve Hermann, ex agente di polizia pronto a menare le mani con le sue braccia cibernetiche per farsi strada tra automi e giganti meccanici di ogni sorta. Un passaggio assolutamente indolore per un titolo oscuro che ha fin troppo da dare per restare zitti di fronte alla sua interessante ricetta.
Potere combinatorio
“Shatterhand” vive della semplicità tipica di tutti i giochi d’azione: il protagonista può muoversi velocemente grazie la croce direzionale, saltare con il tasto B e colpire a mani nude tutti gli ostacoli metallici con il tasto A; premendo quest’ultimo a ripetizione è possibile inanellare una piccola combo composta di due-tre pugni veloci e un pugno potente, sferrato a ripetizione dopo il primo della serie. Eliminati certi nemici sarà possibile accumulare alcune monete, di varie dimensioni, da spendere in delle piattaforme bianche per ottenere un piccolo potenziamento di forza (che sparisce dopo solo un colpo subito), una cura completa della propria barra di energia e, con una spesa elevatissima e assolutamente inopportuna di 2000 crediti, una vita extra. Sparse per il livello sono presenti diverse casse bianche, le quali possono essere distrutte per ottenere delle monete singole, dei sacchi contenenti molto denaro da colpire più velocemente possibile, a la “blocco di Super Mario da 10 monete”, e dei quadrati con sopra raffigurata un alfa e una beta. E’ possibile accumulare tre di questi potenziamenti per evocare un piccolo robottino satellitare, pronto a scortarvi per difendervi dai colpi lanciando, lui stesso, alcuni proiettili per eliminare i nemici della zona. Va citata, tuttavia, una particolarità legata ai piccoli potenziamenti: questi, prima di essere acquisiti, possono essere colpiti con i pugni in modo tale da ottenere combinazioni sempre diverse di alfa e beta; ogni combinazione di tre elementi fornisce un supporto sempre diverso, con delle differenze sia quantitative che qualitative (se si combinano, per esempio, una alfa e due beta il risultato che si otterrà cambiando le loro posizioni sarà diverso). Questa straordinaria capacità combinatoria permette di ottenere otto diversi satelliti, ognuno con il suo potere peculiare da scegliere a seconda della conformazione degli scenari e dei pattern di attacco dei nemici. Combinando altri tre potenziamenti quando già si possiede un satellite si ottiene l’accesso a quindici secondi di potere assoluto: totale distruzione unita a un periodo di invincibilità! Per questa ragione è sempre bene cercare di tenere pronti due potenziamenti prima di un boss di fine livello e ottenere il terzo poco prima dello scontro.
Non c’è pietà per i novellini
“Shatterhand” è difficile. Molto difficile. Ma non fraintendete, il fatto che sia un titolo per NES non rende un gioco automaticamente arduo da completare solo perché lo vuole la tradizione. Ci sono dei titoli che sono difficili a causa di un sistema di controllo mal calibrato, altri che son difficili a causa di alcune scelte spaziali e di level design decisamente infelici. Anche la difficoltà è un’arte, quindi, e “Shatterhand” trae beneficio da questa arte regalando, mediante un gameplay semplicissimo e coinvolgente, un’esperienza davvero ostica: i nemici sono veri ossi duri e ognuno essi va sconfitto meditando, prima dell’attacco, una strategia per uscire vincitori dai vari scontri. Al termine di ogni livello è presente, come vuole la buona norma, un boss: un mostro di potenza sovraumana capace di far diminuire la barra dell’energia con una velocità imparagonabile se non si è attenti al suo pattern d’attacco. I livelli sono strutturati secondo i migliori canoni dei platform a scorrimento multiplo, con alcune strutture che ricordano vagamente scenari di ‘megamaniana’ memoria: le piattaforme si attraversano tutte agilmente, tra un salto e l’altro, con alcuni tratti sorpassabili appendendosi ad alcune grate presenti sullo sfondo; il tutto è unito in una meravigliosa mescolanza che rende l’esperienza appagante nonostante la sua difficoltà brutale. Come se non bastasse, una volta completati i primi sei livelli (cinque dei quali dall’ordine liberamente selezionabile) si ha l’accesso a un settimo livello, caratterizzato da una difficoltà fuori da ogni logica: prima dello scontro finale è necessario sconfiggere tutti i boss, senza la possibilità di sbagliare. Una scelta che riassume, in sé, il termine stesso di ‘sfida’.
Conclusione
“Shatterhand” è un titolo davvero singolare: pur appartenendo a un genere abusato nel suo periodo di uscita riesce comunque a distinguersi per una realizzazione tecnica efficacissima (la colonna sonora è incredibilmente orecchiabile ed esaltante), una difficoltà che mantiene il livello di sfida a livelli sempre altissimi e alcune scelte di gameplay che lo rendono vario abbastanza per non annoiare anche chi conosce tutta la libreria NES a memoria. Il fattore “potere”, incarnato nel ragazzone che da solo va a sconfiggere un intero esercito di robot a mani nude e completamente solo, amplifica ulteriormente il fascino di questa curiosa gemma: un braccio pronto a distruggere, indipendentemente dalla grandezza dell’ostacolo; un pugno che non vede l’ora di piegare del metallo; un controller grigio che freme al solo pensiero di scaldarsi insieme ai veloci movimenti di un giocatore esperto abbastanza da accogliere questa provocazione ludica senza restare intimorito dalla sua complessiva “malvagità”.
Scritto da Alessandro Perlini